mercoledì 28 settembre 2022
Martin Sandbu, commentatore del “Financial Times” propone un piano per chi è rimasto indietro: la pandemia ha dimostrato che lavori come autisti, commessi, postini e badanti sono essenziali
Martin Sandbu ha pubblicato “L’economia dell’appartenenza. Un piano radicale per riconquistare chi è rimasto indietro e ottenere prosperità per tutti”

Martin Sandbu ha pubblicato “L’economia dell’appartenenza. Un piano radicale per riconquistare chi è rimasto indietro e ottenere prosperità per tutti” - (Princeton University Press)

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Martin Sandbu, commentatore europeo del Financial Times, ha terminato il suo libro “L’economia dell’appartenenza. Un piano radicale per riconquistare chi è rimasto indietro e ottenere prosperità per tutti” (casa editrice “Princeton University Press”), proprio mentre cominciava la pandemia, «che ha messo in evidenza», spiega, «un fatto importante che sottolineo nel mio volume, ovvero che lavori essenziali come autisti, commessi di supermercati, postini e badanti si siano dimostrati indispensabili per la nostra sopravvivenza economica benché, dal dopoguerra, abbiano perso status e vantaggi». «La rinnovata importanza di questi impieghi», spiega il noto giornalista, «la considero una forma di riordinamento morale e, nella prima parte del mio libro, cerco di capire come sia potuto succedere che lavori così essenziali siano stati trascurati dal nostro sistema economico e sociale».

È proprio questa realtà che Sandbu chiama «la fine dell’economia dell’appartenenza », il fatto che è terminato quel consenso sociale che, per tre decenni, a cominciare dal dopoguerra, ha garantito a ciascun lavoratore uno stipendio decoroso e la possibilità di migliorare la propria posizione. «In ogni Paese dell’Occidente industrializzato vi è stato, fino agli anni Ottanta, un riduzione nel tasso di disparità sociale. La direzione verso la quale la nostra economia era impegnata era quella giusta perché ciascun cittadino sentiva un senso di appartenenza ed era sicuro che il sistema stava lavorando per migliorare le sue condizioni. Poi, però, ha prevalso il diffondersi della stagnazione e la riduzione nel livello di ricchezza e, anche, un rallentamento nella capacità delle zone più povere di raggiungere quelle più ricche», racconta ancora l’esperto, «Ha cominciato, da allora, a diffondersi un sentimento: 'Questo non è più il mio Paese perché questa economia non funziona più per persone come me'». Insomma a partire dagli anni ottanta, secondo Sandbu, «l’economia si sposta verso imprese con posti di lavoro molto qualificati e ad alto tasso di conoscenza, particolarmente adatti alle grandi città, e pensati per persone disposte al cambiamento e pronte a spostarsi facilmente. Una trasformazione che finisce per punire chi può contare soltanto su competenze manuali». La soluzione proposta dal famoso commentatore al problema fondamentale che ci pone la fine dell’economia dell’appartenenza è fatta di diverse componenti per evitare che migliaia di persone finiscano in lavori pagati male, di tipo manuale, vittime di sfruttamento. «Occorre, prima di tutto, mantenere alti i livelli degli stipendi e la produttività dei lavori – spiega Sandbu –. Nei Paesi del Nord Europa, come Svezia, Danimarca e Norvegia, questo obiettivo è stato raggiunto grazie alla forza dei sindacati che hanno ottenuto che vengano lasciati all’automazione i lavori meno qualificati come, per esempio, il lavaggio delle auto. Nelle nazioni dove la struttura industriale non consente questa possibilità lo stesso risultato si può ottenere attraverso un’ambiziosa politica di salari minimi, mantenendo alta la produttività e abituando i lavoratori a una forte flessibilità con la quale cambiano lavoro molto spesso».

Per riavviare un’economia dell’appartenenza, secondo l’esperto, è importante ripensare le politiche macroeconomiche così da proteggere chi si ritrova ai margini. Sandbu predilige un approccio keynesiano col quale non si ha paura di grandi deficit e di mantenere bassi i tassi di interesse, ripensando anche le politiche fiscali, che hanno un ruolo importantissimo e per le quali l’esperto ha tre proposte precise. «Prima di tutto una tassa sulla ricchezza da applicare a chiunque sia in possesso di un certo livello di reddito come ha fatto, in questo momento, il partito democratico americano nel proprio programma elettorale», spiega l’autore di “L’economia dell’appartenenza”. «Occorre, poi, assicurarsi che vi siano adeguate imposte sui redditi d’impresa delle multinazionali, chiudendo eventuali scappatoie, una strada che può essere percorsa dai singoli Paesi, oppure anche a livello multilaterale, come sta capitando nell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. La terza proposta concreta è quella di prendere seriamente il cambiamento climatico e aumentare, in modo drammatico, le tasse sul carbonio, assicurandosi, però, di non colpire chi si trova già ai margini del sistema economico, piuttosto ridistribuendo i soldi, così guadagnati, in modo da aiutare i più poveri a riqualificarsi ». Secondo l’esperto il momento che stiamo vivendo è particolarmente favorevole al recupero di quella struttura economica che ha garantito buoni stipendi e possibilità di miglioramento per anni nel dopoguerra, un momento per avviare politiche radicali come quelle adottate dal presidente americano Franklin Roosevelt, pochi mesi dopo la sua elezione nel 1933. Quel 'New Deal' con il racconto del quale Sanbu comincia il proprio libro e che propone come modello di una nuova «economia dell’appartenenza».

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