La grande ingiustizia è quando le vite non si incontrano più
Da Harlem all’Italia: la disuguaglianza non è povertà, ma un sistema che separa destini, erode la fiducia e svuota la democrazia. Ecco perché condividere è tutto

«Un uomo di colore nato e cresciuto in alcune zone di Harlem a New York, ha meno possibilità di raggiungere i 65 anni rispetto a un bambino nato e cresciuto nelle zone rurali del Bangladesh». Il dato può sembrare sorprendente ma è reale ed uno dei punti di partenza della riflessione che il filosofo britannico Brian Barry elabora nel suo ultimo libro intorno al tema della giustizia sociale, Why Social Justice Matters. L’idea di base di Barry è che il principale problema delle nostre società non è tanto quello della povertà quanto quello della disuguaglianza. Perché la disuguaglianza associa ai danni della povertà anche quelli della disgregazione sociale: l’erosione della fiducia tra i cittadini, l’umiliazione degli ultimi e la compromissione della logica democratica. Ciò avviene attraverso quella che Barry chiama the machinery of social injustice, il “dispositivo” dell’ingiustizia sociale”: un sistema che produce e riproduce ingiustizia in modo strutturale, impersonale e continuo, quasi automatico. La distribuzione ineguale dei vantaggi e delle opportunità ha origine naturale e sociale (la lotteria dei geni e quella della famiglia), ma questa ineguaglianza viene rafforzata, invece che mitigata, dalla capacità dei più ricchi di manipolare le istituzioni a proprio vantaggio. Infine, il “dispositivo” si muove sul piano dello story-telling, creando una narrazione nella quale le differenze strutturali vengono trasformate in giudizi morali, così che chi perde neanche si ribella più. Semplicemente si sente in colpa.
E così il potere economico diventa potere politico, che diventa istituzionale e, infine, simbolico. La lettura del libro di Barry non può non farci riflettere sulle dinamiche economiche, sociali e politiche che anche le nostre società stanno ormai da tempo sperimentando. L’Italia, da questo punto di vista non è certo un’eccezione anzi. La disuguaglianza qui non è un fenomeno laterale, è strutturale, è “incorporata” nelle istituzioni e nei percorsi di vita. Gli ultimi dati ISTAT e numerosi altri rapporti mostrano che la speranza di vita alla nascita varia sensibilmente fra regioni, città e perfino da quartiere a quartiere. Tra la provincia di Bolzano e quella di Caserta la differenza supera i 3 anni. A Napoli la differenza di aspettativa di vita tra quartieri diversi può superare i 7 anni. Il tasso di morti evitabili attraverso trattamenti tempestivi e attività di prevenzione va da 14,2 (ogni 10.000 residenti) della provincia autonoma di Trento, ai 22,4 della Campania. La mortalità infantile passa da 3,6 (ogni 1.000 nativi vivi) della Calabria, all’1,4 della Toscana. La situazione non è molto diversa da quella dell’esempio di Harlem e del Bangladesh di Barry.
E come lì, anche qui la macchina dell’ingiustizia lavora trasformando le differenze di contesto in differenze percepite di responsabilità personale. La retorica della meritocrazia si insinua e opera. Se vivi di meno, se ti ammali di più, se studi peggio, se non trovi un lavoro la colpa è solo tua. Ma anche qua i dati dicono altro. In Italia, la scuola opera spesso come un amplificatore delle disuguaglianze familiari. Nelle regioni del Sud, la quota di studenti diplomati che non raggiungono la soglia minima in italiano o matematica supera il 40%, a fronte di valori intorno al 10-15% in molte regioni del Nord. In questo modo la scuola non porta tutti verso l’alto, ma ordina e seleziona per origine sociale. A Milano, la differenza media nei risultati Invalsi tra scuole situate in quartieri benestanti e quelle in quartieri popolari arriva a punteggi equivalenti a più di un anno di apprendimento. Il tasso di iscrizione ai licei, nelle province più ricche, supera il 55-60% mentre in molte aree meridionali è inferiore al 35%. È così che, come scrive Barry, il “dispositivo” dell’ingiustizia trasforma differenze di partenza in esiti “meritati”, come se il talento fosse naturalmente distribuito per aree geografiche.Le disuguaglianze erodono la trama profonda delle democrazie. Il problema nasce dal fatto che una società ingiusta è una società dove “le vite non si incontrano più” e dove viene a mancare la relazione, la fiducia scarseggia e la coesione sociale traballa. Questo vale per molte città italiane, dove la segregazione residenziale sta crescendo in silenzio. Nel 2023 il prezzo medio al metro quadro in centro a Milano ha superato i 10.000 euro, mentre in periferie come Giambellino, Corvetto o Quarto Oggiaro oscilla tra 2.000 e 3.000. Significa che le classi sociali non vivono più nello stesso ecosistema urbano. Le scuole, i parchi, i servizi pubblici diventano compartimenti stagni, riflettendo la logica barryana delle “vite parallele”. A Roma la distanza di mobilità reale fra chi ha accesso a trasporti e servizi efficienti e chi vive in aree periferiche è enorme. Per gli abitanti di Tor Bella Monaca o San Basilio, raggiungere i luoghi delle opportunità - università, lavoro qualificato, cultura - può richiedere il doppio del tempo rispetto ai residenti dei quartieri centrali. La segregazione spaziale produce segregazione temporale: per alcuni il tempo è risorsa, per altri diventa un costo.
Ma la vera essenza dell’ingiustizia sociale strutturale emerge quando le condizioni collettive vengono trasformate in colpe individuali. Ci ricordiamo tutti la retorica del “Non trovano lavoro perché preferiscono stare sul divano” che ha consentito di smontare il reddito di cittadinanza - che pure di difetti ne aveva - in quattro e quattr’otto. Peccato che in molte regioni italiane la disoccupazione giovanile superi il 30%, e in alcune zone il 40%. Crotone e Trento mostrano tassi di occupazione femminile distanti 30 punti percentuali. Non è un difetto morale la difficoltà a trovare lavoro, è una “struttura” economica. Che dire poi del refrain “Il Sud spreca, il Nord produce”. Una semplificazione che cancella decenni di differenziali di investimento pubblico, infrastrutture, trasporti, asili, università. E riproduce la narrazione che Barry direbbe anti-strutturale: «Non è la società a essere ingiusta, è la gente a essere inadeguata». Infine, il “Se vuoi, puoi” della scuola del merito. La versione italiana del mito meritocratico che Barry smonta, mostrando che il successo individuale è spesso il nome elegante di un vantaggio ereditato. Anche in Italia, dunque, il problema non è solo la povertà, che pure avanza veloce, ma la distanza. Perché, nella logica barryana, mentre la povertà isola, la disuguaglianza divide. In Italia questa divisione assume forme territoriali, educative, sanitarie, urbane. Gli italiani vivono sempre più in mondi paralleli, separati, segregati.
La lezione di Brian Barry, letta oggi, è semplice e scomoda: una società non diventa ingiusta perché alcuni hanno poco, ma perché molti non condividono più nulla. La democrazia non crolla quando diminuisce il reddito medio, ma quando si spezza il filo sottile che tiene insieme destini diversi. Quando non ci si incontra più nelle stesse scuole, negli stessi autobus, negli stessi ospedali. Quando gli uni diventano invisibili agli altri. La giustizia sociale non è un lusso progressista, né un capitolo marginale della politica economica. È l’infrastruttura morale che permette a una comunità di riconoscersi come tale. Senza giustizia non c’è fiducia, senza fiducia non c’è cooperazione, senza cooperazione non c’è democrazia. Il punto, direbbe Barry, e noi con lui, non è quanto siamo disposti a spendere, dunque, ma quanto siamo disposti a condividere.
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