Servono innovazione e “follia” per rigenerare periferie e aree interne

di Marco Birolini, inviato a Cavalese (Trento)
A Cavalese il secondo incontro annuale delle “Comunità intraprendenti”: no profit, fondazioni e imprese locali cercano soluzioni e risposte alle fragilità locali
December 18, 2025
Servono innovazione e “follia” per rigenerare periferie e aree interne
Don Antonio Loffredo e l'urbanista Elena Granata all'incontro di Cavalese
Si presentano come “comunità intraprendenti”, per far capire che hanno voglia non solo di “fare tante cose”, ma soprattutto di cambiarle. Enti, fondazioni, associazioni, amministratori locali, imprenditori, perfino preti, si sono arrampicati fino a Cavalese, in Val di Fiemme, seguendo un unico fil rouge: fare squadra per vincere la partita contro il declino che affligge troppi territori, dalle periferie metropolitane alle remote aree montane.
In un tempo in cui la politica nazionale è distratta dalle grandi questioni internazionali, si avverte l’urgenza di guardare più vicino, pur senza perdere d’occhio l’orizzonte generale. «C’è una forte esigenza dei cittadini di trovare risposte ai propri bisogni, senza delegare ad altri. Anche perché pubblico e mercato riescono sempre meno a soddisfare le necessità locali» riassume Jacopo Sforzi, ricercatore senior di Euricse (il centro che studia e sostiene il mondo del no profit) e coordinatore del progetto “Comunità intraprendenti”. Dopo il primo meeting dell’anno scorso, organizzato per esplorare questa galassia scaturita “dal basso” (ma nel senso più alto del termine), stavolta si è deciso di compiere un passo in più: capire come promuovere lo sviluppo di queste reti “local”, favorendo i contatti e incrociando buone pratiche. «Che tu sia sulle Alpi o in un quartiere di Milano, scopri che ci sono tante realtà che sentono il bisogno di affrontare e risolvere le loro fragilità – riflette Andrea Ciresa, segretario di Fondazione Fiemme Per, organizzatrice dell’evento insieme a Euricse e Fondazione Caritro – E per riuscirci serve un approccio pragmatico: incontrarsi per allacciare relazioni, scambiarsi esperienze e stringere alleanze. Se vedo uno che sperimenta un’iniziativa sul suo territorio mi chiedo se può funzionare anche nel mio contesto». Prendendosi magari anche il lusso di poter sbagliare, perché questo impone l’innovazione sociale. «Non è più tempo di distribuire fondi a pioggia. C’è bisogno di visione, di comunità capaci di immaginare il futuro. Occorre il coraggio di agire in modo diverso, senza paura dell’insuccesso» sottolinea Carola Carazzone, segretaria generale di Assifero, che riunisce fondazioni private e enti filantropici. Servono idee, certo, ma anche risorse. Quelle che lo Stato e la politica non possono più (e forse nemmeno vogliono) garantire. A patto però di non assuefarsi a una logica assistenziale. «Le fondazioni bancarie possono creare le condizioni per una partecipazione sempre più attiva dei cittadini– spiega Giorgio Righetti, direttore generale di Acri -. Un miliardo l’anno di contributi, quelli che noi in media offriamo, sono importanti ma non sufficienti. Le fondazioni devono offrire anche consulenze e servizi che rafforzino il no profit nella governance e nel fundraising».Poi tocca alle imprese. Perché se si vuole mantenere l’attività in un territorio, occorre semplificare la vita dei dipendenti e dei loro vicini di casa, magari allargando anche a questi ultimi l’accesso al welfare aziendale. Altrimenti si fugge altrove, e lo spopolamento avanza. La fondazione Fiemme Per - promossa dalla Magnifica Comunità di Fiemme, che dal 1100 amministra i beni collettivi, tra cui prati e boschi - coinvolge 100 aziende locali, consapevoli che occorre non solo investire sulle infrastrutture (trasporti e energia su tutti) ma anche favorire l’inclusione. Come ha fatto il pastificio Felicetti, che ha accolto alcuni ragazzi svantaggiati.
I giovani sono la chiave dello sviluppo: non c’è futuro se loro se ne vanno. Quest’estate la fondazione li ha invitati ad “aperitivi formativi” in riva al biolago di Predazzo: «Abbiamo parlato di Intelligenza artificiale e di psicologia – spiega la community manager Nicole Betta – in modo del tutto informale: l’obiettivo è dare spazio ai talenti della valle, mettendoli a contatto diretto con i loro coetanei. Così alleniamo quelle soft skills che si affiancano alle competenze universitarie: intelligenza emotiva, team building, public speaking».
Il “contagio” delle comunità intraprendenti ha avuto un importante epicentro dalla parte opposta d’Italia: Napoli, rione Sanità. Vent’anni fa don Antonio Loffredo ha riaperto le chiese e recuperato le catacombe di San Gennaro, ridotte a immondezzaio, coinvolgendo i giovani del posto. «Bastano 6 ragazzi per fare una rivoluzione? – si è chiesto davanti alla platea incuriosita di Cavalese – Sì, se si mette il noi davanti all’io. Quando arrivai alla Sanità trovai un’aria opprimente: è sempre andata così, dicevano, non cambierà mai niente. Ma vedevo tanti giovani con grandi potenzialità... Allora mi buttai con loro. Molti non erano scolarizzati, ho iniziato facendoli innamorare di arte e lettura. Li convinsi che il loro quartiere poteva diventare il luogo più cool della città». E così è stato, con percorsi creativi e artistici nati negli spazi sacri, non più abbandonati ma vissuti di giorno e di sera. «Quando passavo e vedevo la luce accesa ringraziavo Dio – ricorda don Loffredo – ma perché sono un po’ matto: uno normale si sarebbe chiesto: chi paga la bolletta?». Una lucida follia di cui c’è gran bisogno, secondo Elena Granata, per rigenerare gli spazi ma anche le persone. «Siamo nel tempo della tabula rasa, del distruggere per ricostruire non si sa bene per chi – ha avvertito l’urbanista -. Prendersi cura delle relazioni di prossimità è il nostro modo di resistere a questo tempo». In città, come nelle aree interne. «Tutti i comuni vogliono essere attrattivi. Ma più attrai e meno sei capace di accogliere. È il modello consumista che mercifica anche i temi della casa e del turismo, e che vale nei piccoli paesi come nelle metropoli. Si vogliono sempre più visitatori, ma poi mancano le abitazioni per i camerieri. Ma di chi sono le città e i borghi se perfino gli abitanti vengono espulsi dal luogo dove vivono?» Le “comunità intraprendenti” stanno provando a dare una risposta.
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