Perché senza un oltre-umano la vita non mantiene le promesse
Se la cultura contemporanea segnata dal narcisismo ha portato alla perdita di desiderio sulla vita eterna, il cristianesimo deve raccogliere questa sfida e affrontarla con creatività e coraggio

Siamo tutti mortali, ma non per la morte. O, come amava dire Hannah Arendt: «Non siamo fatti per morire, ma per nascere». Il Concilio Vaticano II – l’8 ottobre abbiamo celebrato i 60 anni dalla sua chiusura - ha raccolto questa sapienza antica e l’ha riproposta all’uomo contemporaneo: «In faccia alla morte l’enigma della condizione umana raggiunge il culmine. L’uomo non è tormentato solo dalla sofferenza e dalla decadenza progressiva del corpo, ma anche, ed anzi, più ancora, dal timore di una distruzione definitiva. Ma l’istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia, insorge contro la morte. Tutti i tentativi della tecnica, per quanto utilissimi, non riescono a calmare le ansietà dell’uomo: il prolungamento di vita che procura la biologia non può soddisfare quel desiderio di vita ulteriore, invincibilmente ancorato nel suo cuore» (Gaudium et Spes). I padri conciliari compresero la contraddizione della cultura contemporanea nei confronti della morte: tutti siamo convinti di morire ma con troppa facilità liquidiamo la morte come una caduta nel nulla. Sartre l’aveva persino teorizzato: «Siamo una parentesi tra due nulla». È una chiara offesa all’intelligenza umana. Infatti, per quanto fragili, vulnerabili, fallibili, noi esseri umani siamo vincolati da un patto d’onore con l’istinto – presente nel cuore in ogni persona – a vivere per sempre. È vero che la cultura maggioritaria ci spinge a non pensare alla morte. E ancor meno all’oltre dopo di essa. E che tristezza quando sento qualche amico laico che mi risponde: «Finiremo in energia!». In realtà, senza un “oltre-umano” la vita non è all’altezza delle sue promesse. Sono piene di umanità anche solo queste brevi osservazioni di Simone de Beauvoir: «Penso con malinconia a tutti i libri letti, ai luoghi visitati, al sapere che ho accumulato e che non sarà più. Tutta la musica, tutta la pittura, tanti luoghi e, all’improvviso, niente… Non succederà nulla. Rivedo la siepe di noccioli che il vento cullava e le promesse di cui ardeva il mio cuore... Le promesse sono state mantenute. Eppure volgendo uno sguardo incredulo su quella credula adolescente, posso rendermi conto, stupita, fino a che punto sono stata defraudata» (La forza delle cose, Torino 1966, 662).
Essere derubati! Intuiamo che le parti migliori della nostra vita sono proprio quelle che resistono alla rassegnazione del tempo dell’orologio e della morte biologica che invece ci consigliano di lasciar perdere. Come possiamo ammettere una vita senza destinazione? No, non dobbiamo “lasciar perdere”. Significherebbe rimuovere la nostra passione per la destinazione della vita. La fede cristiana ci assicura che nulla di ciò che viviamo va perduto: tutto sarà accolto – e raccolto – al momento dell’uscita dal tempo storico della vita, per essere portato al suo compimento. Sì, siamo mortali, ma non per la morte. E la nostra destinazione è la pienezza della vita. Non possiamo “lasciar perdere”. Non possiamo cedere all’occultamento della morte e alla susseguente cancellazione del desiderio dell’Oltre. Purtroppo, talora anche i cristiani, se non dimenticare, sembra abbiano messo da parte il Vangelo (la buona notizia) della “risurrezione”. È rara, infatti, la predicazione sui “novissimi” (morte, giudizio, inferno e paradiso). La stessa riflessione teologica è in serio ritardo. E ancor più la pratica pastorale. Il danno è gravissimo (anche se non ne siamo sufficientemente consapevoli). L’amara esperienza del Covid è passata senza trarne la debita lezione. Mi ha fatto impressione, ultimamente, la richiesta di alcuni responsabili delle pompe funebri di Brescia: «Vorremmo che venisse da noi per parlarci della risurrezione. Siamo stati traumatizzati durante il Covid: non riuscivamo a costruire le bare per le tante persone che morivano. E incontravamo gente con i volti smarriti e in cerca di parole. Vorremmo che lei ci parlasse della risurrezione». Sono andato. E abbiamo deciso di continuare a riflettere sui temi della morte, del lutto, della risurrezione, dell’Oltre. È urgente che i cristiani riprendano a riflettere sui “novissimi” e a parlarne in maniera comprensibile agli uomini e alle donne di questo nostro tempo della destinazione alla “vita”: nascere è per sempre. Aveva ragione Paolo Ricca, pastore valdese recentemente scomparso, quando notava: «I versetti biblici sulla risurrezione e sulla vita eterna continuano ad essere ripetuti, un po’ ritualmente; le formule tradizionali continuano ad essere utilizzate come se nulla fosse accaduto e come se esse trasmettessero ancora contenuti chiari e inequivocabili. In realtà sembra esserci, proprio su queste questioni un dislivello notevole tra le verità “ufficiali” e le convinzioni o, più sovente, le perplessità dei singoli credenti» (Il cristiano davanti alla morte, Torino 2005, p. 12).
Molti – grazie a Dio – iniziano a chiedere. Alessandro Castegnaro, un ricercatore italiano, ad esempio, fa notare che «l’eclisse delle questioni ultime dalla predicazione e dalla pastorale è forse più un effetto che una causa dell’evoluzione delle credenze; riflette la difficoltà a proporre oggi certi contenuti più di quanto non ne spieghi lo sfarinamento nelle religiosità individuali. La questione non è cognitiva e non è di istruzione religiosa. I giovani di oggi sanno meglio dei loro nonni che il cristianesimo propone la speranza nella risurrezione dei corpi, ma vi credono di meno» («Gli uomini di oggi credono ancora nella vita eterna?», in CredereOggi - 2009 173, p. 15). Se la cultura contemporanea, segnata da un forte narcisismo, ha portato alla “perdita di desiderio” dell’Oltre e all’attutimento nelle coscienze sulle “realtà ultime” e la “vita eterna”, il cristianesimo deve raccogliere questa sfida e affrontarla con creatività e coraggio. Con “Avvenire” cerchiamo di raccoglierla e, come possiamo, di affrontarla. Certo, una prima questione dobbiamo porcela: «Come mai siamo stati – e siamo ancora in misura preponderante – così inguaribilmente sciocchi per millenni su questo argomento (la morte e l’oltre), dato che siamo stati così intelligenti su molti altri?».
Forse per paura della morte? D’accordo. Ma ogni giorno milioni di uomini e di donne, sfidano questa paura per ragioni totalmente differenti da quelle che ci sono consigliate da una natura che ci raccomanda adattamenti più vantaggiosi. Ed è davvero poco saggio liquidare chi guarda all’“oltre” come se fosse semplicemente vittima della paura o della superstizione. Senza contare il fatto che c’è qualcosa di perverso, in questo gioco, se consideriamo la forma che esso ha preso nella nostra cultura corrente. Le filosofie della vita erano nate – paradosso anche questo, ma pieno di verità – nel segno del tragico, pur diversamente interpretato (basti pensare a Nietzsche e a Kierkegaard): proprio la morte imponeva una decisione assoluta per la vita, religiosa o irreligiosa che fosse. Nella storia degli effetti che è seguita alla concentrazione sull’incombere della morte e sulla fragilità della vita, siamo approdati ad una strategia di spensierata dissimulazione della morte, che alla vita guasta la festa e sulla vita è completamente muta. La morte non ha più nulla da dire alla vita: va tenuta nascosta, non va fatta vedere ai bambini, non va indagata alla luce della vita che c’è dentro (che cosa fa la morte, di tutta la vita che si prende?). La morte va gestita e sbrigata clinicamente e deve essere calcolata come una percentuale di insuccesso delle terapie attualmente disponibili. Che tristezza? E quale pochezza! Ricordiamoci quel che la Bibbia grida sin dalla sua prima pagina: il Dio nel quale crediamo non desidera vivere senza di noi. Ci vuole eterni con Lui. Ci ha creati, infatti, «a sua immagine e somiglianza». Non possiamo mettere in sordina questa straordinaria destinazione. Siamo creati per l’Eterno. Il vero mistero è la nascita: eravamo nulla e siamo venuti al mondo. Ecco il Vangelo, la bella notizia: Dio ci ha creati perché non vuole fare a meno di noi!
(3 - continua)
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