Ogni nodo è stretto per essere sciolto, il futuro ci chiama sempre
Ci dicono che “è finita l’epoca delle illusioni” e che dovremmo arrenderci al realismo. Allora perché ci sentiamo attratti da ciò che ci fa superare ogni muro in apparenza invalicabile?

Qualche settimana fa sono stato a Firenze a trovare Sergio Giunti, l’editore presso il quale ho cominciato la mia carriera lavorativa; è un incontro che si ripete nel tempo e dal quale esco sempre con una grande positività. Mentre aspettavo di vederlo, lo sguardo è andato a un grande totem dedicato all’Edizione Nazionale dei manoscritti e dei disegni di Leonardo da Vinci, che la casa editrice pubblica da oltre cinquant’anni. Su una pagina fitta di disegni – un uccellino in gabbia, nodi, misteriose volute – si legge una frasetta lapidaria, resa famosa dalle diverse interpretazioni degli studiosi: «I pensieri si voltano alla speranza». Non voglio qui aggiungere il mio parere a tanti ben più autorevoli, ma piuttosto riferire l’impressione autentica di quel momento. Leonardo lasciava spesso su una pagina piena di contenuti scientifici o artistici una frase legata all’immediato, una nota scritta per sé, appuntando qualcosa o accennando un punto da riprendere in seguito; anche qui potrebbe essere avvenuto lo stesso: magari stava riflettendo a qualcosa che gli aveva dato delusione e poi speranza. A me però piace immaginare questa frase, proprio perché così fuori contesto, come dotata di un valore più generale, quasi Leonardo intendesse che la natura stessa del pensiero è la speranza, che la speranza è l’attività principale della nostra mente. Più che affermare, mi sembra confermare qualcosa di pienamente naturale e quindi ineluttabile, come “la calamita attira il ferro” o “l’alba segue alla notte”. Oggi, mentre scrivo di speranza, la frase di Leonardo mi appare buon punto di partenza e anche di arrivo, perché veramente penso che noi uomini siamo avviati, in qualche modo condannati a nutrire speranza anche nelle situazioni più impossibili.
Marco Pannella, che ho conosciuto bene, citava spesso un passo dalla lettera di san Paolo ai Romani che ha appunto questo significato: «Spes contra spem». La traduzione ufficiale del versetto intero suona così: «Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli come gli era stato detto». Marco però, usava la frase per riferirsi alle condizione dei detenuti, e ne forzava il senso in maniera provocatoria e ingegnosa (anche troppo, perché uno slogan politico deve risultare più semplice). Per lui Spes contra spem significava che le persone in carcere, anziché limitarsi a sperare di uscire, possono essere speranza per noi liberi, speranza vivente che quella condizione diventi ogni giorno più umana, nello spirito cristiano e costituzionale del recupero della persona attraverso un trattamento che non ne trascuri mai il valore assoluto. Quei detenuti, raggiungendo noi liberi attraverso l’azione di Pannella, narrando la propria condizione alla radio, confidando agli altri storie, paure e frustrazioni, diventavano la nostra speranza di strapparli da quella condizione inumana, di essere capaci di trasformare la nostra incuria in qualcosa di cui andare orgogliosi come uomini: avere punito ma contemporaneamente offerto, oltre la condanna, la prospettiva di tornare cittadini a ogni effetto. Questo vuole la legge non privando i detenuti dei principali diritti e in particolare di quello politico attivo. Quanto al voto, Pannella concludeva con un altro paradosso: «Bisogna essere degni del voto dei cittadini in carcere». Era un rovesciamento di prospettive che andava oltre rancore e pietismo, che sono gli estremi con i quali si guarda alla vicenda di coloro che hanno perso la libertà. Potenza delle frasi: anni dopo ho letto mie poesie nel carcere milanese di San Vittore; le persone detenute sono diventate la mia speranza di comunicare e la gioia di sentire quanto sentivano.
La speranza è un sogno, la speranza entra nei miei sogni. In tante notti, così vivida che dopo una vita intera non mi abituo ancora. Spesso mi succede di sognare le situazioni personali, familiari o addirittura planetarie nelle quali mi trovo nell’impossibilità di trovare una soluzione. Il sogno mi restituisce esattamente la sensazione di frustrazione, di paura che l’impotenza genera: immagini di un muro altissimo, inverosimilmente liscio, oppure di estensioni a perdita d’occhio, indistinte, non misurabili. Si accavallano elementi vissuti, sentimenti miei e di altri intorno a me, immagini sfuggenti, una sensazione di freddo o di soffocamento. Poi mi rendo conto che tutto questo nodo è stato stretto solo per essere sciolto, e allora la soluzione arriva come qualcosa di geniale, così semplice che anche un bambino avrebbe potuto pensarla, ma che non si vedeva perché stava nascosta da qualche parte, e ora splende nella mia mano come una chiave d’oro. Quando mi sveglio sono pieno delle due sensazioni, quella cupa che ha preparato il dramma e quella ingenua, leggera, liberatoria che lo ha sciolto in un attimo. Naturalmente, a quel punto ho perso i contorni della vicenda, il problema scatenante e la splendida soluzione finale, quel regalo da consegnare a un amico o all’umanità intera. Però conservo nettissime le due sensazioni e le penso come un dono e un grande insegnamento dal mondo immateriale a quello materiale: una dinamica duale, la più semplice possibile, che mi porta aiuto perché scolpisce nella mia mente la successione nero-bianco, problema-soluzione, della quale ho, abbiamo bisogno. Ringrazio la sorte che mi fa sognare in questa sequenza e non in quella opposta, perché allora sarei una persona infelice. Anzi: letteralmente “senza speranza”.
Abbiamo generato mostri lungo la lunga vita dell’umanità, eppure è come se non lo ricordassimo. Così ci tocca assistere al ritorno puntuale delle nostre ossessioni: la ricchezza che genera ineguaglianza economica, sociale, di opportunità. La scienza e la tecnologia (sorelle che si vergognano l’una dell’altra) che dovrebbero consegnarci il migliore dei mondi possibili e invece si prestano a creare una condizione da incubo: la connessione globale trasformata nella dipendenza dell’intera umanità dagli interessi di pochi satrapi, moralmente non all’altezza. La rinuncia a ridurre il gap culturale tra le persone attraverso i fantastici strumenti informativi che possediamo. La politica nazionale e internazionale che pesta ovunque lo stesso strumento scordato: la soluzione dei problemi non sarebbe nella cura degli altri e della terra ma in un’apertura ogni giorno più convinta all’ipotesi della difesa di tutti da tutti, come non sapessimo che essa coincide con la guerra di tutti contro tutti. Anziché sventolare ideali alti per i quali battersi (sono gli unici possibili, perché quelli bassi non esistono) i politici fanno appello al realismo e come è stato detto plasticamente dalla presidente dell’Unione Europea possiamo considerare «finita l’epoca delle illusioni». Fortunatamente, perché Ursula Von Der Leyen avesse ragione sarebbe necessario che i pensieri non si voltassero naturalmente alla speranza, a una durata che va oltre turni elettorali e carriere politiche. Perché è vero: il bene comune è irraggiungibile; non nel senso voluto da questi poveri realisti, però, ma piuttosto come lo è il fantastico castello tra le nuvole degli Eroici Furori di Giordano Bruno: l’uomo vive perché sogna quel castello e il castello in cielo esiste perché è sognato dall’uomo. Non è escluso che in una delle prossime notti mi troverò davanti qualche muro altissimo o qualche distesa a perdita d’occhio, e che in palio ci sia la soluzione ai problemi della terra e dell’umanità: come ridurre la diseguaglianza, spegnere l’appetito di distruzione, riportare la scienza e la tecnologia al servizio del bene. È molto probabile che in quel momento proverò nel sonno quello che provo adesso: frustrazione e disorientamento. Ancor più probabile è che all’improvviso mi troverò in mano la chiave d’oro che rende tutto possibile. Quasi certo è che al risveglio non potrò raccontare la soluzione a nessuno e neanche a me stesso. Poco importa: «I pensieri si voltano alla speranza».
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