Perché la vendita di due giornali mobilita l'opinione pubblica e la politica
Ha senso l’agitazione mediatico-politica in corso intorno alla vendita delle attività del gruppo Gedi, di cui fanno parte Stampa e Repubblica?

Ha senso l’agitazione mediatico-politica in corso intorno alla vendita delle attività del gruppo Gedi, di cui fanno parte Stampa e Repubblica? E perché, oltre ai giornalisti, si stanno mobilitando anche esponenti del governo e dell’opposizione?
Non sono domande retoriche. Il “peso” dell’informazione non è più quello di un tempo. Qual è l’ultima volta che abbiamo visto una persona leggere un quotidiano cartaceo? Non va molto meglio nemmeno per le versioni digitali dei giornali tradizionali, che registrano un’emorragia costante. Un’indagine autorevole come il “Digital News Report 2025” documenta un interesse degli italiani per le notizie nuovamente in calo: siamo al 39%, che, rispetto al 74% del 2016, suona come un campanello di allarme. È la Tv a mantenere una solida leadership tra le fonti di news cui si abbeverano gli italiani. Dulcis in fundo, si fa per dire, la fiducia nell’informazione è sì risalita lievemente al 36%, ma resta su livelli considerati dagli studiosi «preoccupanti».
Se questa è la situazione, se oggi tanti italiani utilizzano i social o l’intelligenza artificiale per restare “aggiornati”, se sullo scenario della comunicazione sempre più dominano le piattaforme di Zuckerberg, Musk & C., perché mai scaldarsi tanto per Stampa e Repubblica? Stiamo parlando, nel primo caso,
di una testata fondata addirittura nel XIX secolo: non sarà accanimento terapeutico? Non è così. Perché un giornale non è solo un giornale.
Lo posso testimoniare avendo diretto, all’età
di trent’anni, un settimanale locale e, successivamente, un’importante rivista missionaria. Un giornale esprime una comunità; rappresenta un pezzo di storia del Paese; svolge un ruolo insostituibile nel dibattito pubblico, al di là del suo orientamento ideale e politico; costruisce relazioni solide con il suo pubblico e con il territorio di riferimento. Insomma: un giornale è un ineliminabile presidio sociale e culturale. Ecco perché - per una volta - governo e opposizione su questa vicenda sembrano esprimere preoccupazioni bi-partisan.
L’altro ieri Alberto Barachini, sottosegretario alla presidenza con delega all’editoria, ricevendo i dirigenti di Gedi ha chiesto «l’impegno dell’azienda alla tutela dei livelli occupazionali e la garanzia dell’indipendenza editoriale di testate storiche che rappresentano un importante asset dell’ecosistema informativo pluralistico».
La leader del Pd, Elly Schlein, si è espressa così: «Siamo estremamente preoccupati dai rischi di indebolimento o addirittura di smantellamento di un presidio fondamentale della democrazia». L’indipendenza e il pluralismo dell’informazione sono altrettanti pilastri essenziali per una democrazia autentica. Per questo, la preoccupazione non può essere soltanto quella di salvaguardare i posti di lavoro. Diceva giusto un anno fa il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: «È necessario sostenere il pluralismo, nelle articolazioni sociali come nell’informazione, non affidando soltanto alle logiche di mercato quel che è prezioso per la qualità della convivenza e per una piena cittadinanza».
Quanto al mondo dell’informazione, ha davanti a sé una sfida epocale, ovvero riconquistare la fiducia perduta (quella “fiducia” che la Treccani ha indicato come “parola dell’anno 2025”). Certo, sono lontani i tempi in cui il giornalista - come affermava Joseph Pulitzer - rappresentava «la vedetta sul ponte di comando della nave dello Stato, per vigilare sulla sicurezza e il benessere delle persone che confidano in lui». Resta, però, il fatto che un sussulto di coscienza in ordine alla credibilità del proprio operato rappresenta una sfida che ogni professionista dell’informazione dovrebbe raccogliere. Se siamo diventati una delle categorie meno stimate, qualche domanda dobbiamo farcela. «Frangar non flectar» («Mi spezzerò, non mi piegherò») era il motto che apparve il 9 febbraio 1867 sul primo numero della Gazzetta piemontese, antesignana della Stampa. L’auspicio è che tanto il quotidiano fondato da Frassati che quello inventato da Scalfari - se pure cambierà l’editore di riferimento - possano continuare ad esercitare il ruolo civile e culturale che si sono guadagnati nel tempo.
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