Luna e stelle “dentro” la Natività: anche il creato adora
di Luca Peyron
Un dipinto del 1511 di Albrecht Altdorfer ci rivela una verità del Natale: non solo la terra e l’umanità, ma tutto l’universo è trasformato dall’evento della Notte Santa

La notte è un sipario cupo e misterioso, ma non del tutto cieco: nel cielo, una Luna sproporzionata, rotonda e accecante come un sole travestito, domina la scena. È un astro che non obbedisce alle leggi naturali, un simbolo che si fa corpo, quasi un presagio. Siamo nel 1511, e mentre Albrecht Altdorfer dipinge questa “Natività”, in Europa si respira un’aria nuova: Copernico in quegli stessi anni sta elaborando i primi calcoli che porteranno, pochi decenni dopo, alla rivoluzione eliocentrica; a Norimberga le mappe celesti si arricchiscono di nuove misurazioni; è il tempo in cui l’universo smette di essere considerato immobile e inizia a vibrare di forze invisibili, un tempo in cui la volta celeste si apre ad ipotesi, anzi vertigini e nuove cosmologie. È notte, eppure la notte non è come tutte le altre.
La scena si svolge dentro un rudere, un edificio cadente, mura di mattoni sconquassati, travi spezzate, finestre come occhi ciechi che guardano verso il nulla. Un luogo di rovina e desolazione, un guscio svuotato che pare un segno della vecchia umanità che si sgretola, un’architettura abbandonata agli scarafaggi e ai venti. Eppure proprio lì, nell’angolo più oscuro e frantumato, accade la nascita che cambia la storia. La Luna è più che Luna: è il segno che il creato intero partecipa al mistero. Accanto a essa, una stella fiammeggiante, rossa, che si accende sopra le rovine del tetto, richiama la stella dei Magi ma anche le nuove curiosità degli astronomi tedeschi, intenti a tracciare comete e a registrare eclissi. È il Rinascimento danubiano che intreccia natura, teologia e un presagio scientifico.
La nascita del Bambino avviene così tra due poli: da un lato la rovina umana, dall’altro il cosmo, che sembra spalancarsi per assistere al mistero. Maria, inginocchiata, e Giuseppe, assorto, non sono che figure minute rispetto all’enorme palcoscenico astronomico che incombe sopra di loro. Altdorfer suggerisce che il mistero dell’Incarnazione non riguarda soltanto Betlemme ma la totalità del creato, un evento che scuote l’oltre firmamento, che ridisegna le coordinate del cielo stesso. Guardiamo la Vergine, inginocchiata in silenzio, le mani giunte, lo sguardo abbassato su un Bambino fragile, disteso tra due angeli luminosi. Accanto, Giuseppe, figura pensosa, spettatore attonito di un mistero più grande di lui. Dietro di loro un asino, custode muto della scena, compagno fedele della povertà. E sopra, nel cielo scuro, due angioletti danzano con un cartiglio, a rimarcare che il Cielo non ha dimenticato la Terra, anzi nel redimerla la spiega nuovamente, le consegna una nuova sintassi e una nuova grammatica fatta non più di potere, ma di meraviglia fragile.
Altdorfer, pur senza strumenti ottici, restituisce la sensazione di chi misura il cosmo: un cielo che non è più un fondale decorativo, ma testimone, inquieto complice. L’impero tedesco è attraversato da guerre e miserie, eppure anche da fermenti culturali e scientifici. La sua pittura respira questa atmosfera: la natura non è più sfondo ma protagonista, le rovine non sono solo materia ma metafora, e l’evento sacro non è calato in un luogo ideale, ma in un paesaggio reale, duro, spezzato, come il cuore dell’uomo che attende redenzione. In questo, la Natività di Altdorfer si distingue dalle compostezze italiane, dai fasti di Raffaello o di Perugino. Ecco perché il suo Bambino nasce non in un presepe idilliaco ma sotto una luna smisurata e un astro in fiamme. Il creato partecipa, si turba, si fa scena e voce. È un’opera che annuncia, quasi inconsapevolmente, che la nascita di Dio non è solo storia della terra, ma cosmologia, mistero che riscrive le stelle.
C’è qualcosa di misteriosamente contemporaneo in questo dipinto del 1511: la povertà come grembo della speranza, la rovina come porta verso l’eterno, l’invisibile che si fa carne tra macerie sfatte e polvere. In quel rudere riconosciamo le nostre città, le nostre società spezzate, i nostri cuori fragili. La salvezza non nasce nei palazzi intatti, nella potenza della tecnica, ma nelle macerie perché a garantirla non è mano d’uomo, ma amore eterno manifestato da un Padre che è nei cieli.
© RIPRODUZIONE RISERVATA





