Anch’io in San Pietro con i detenuti, in cerca di misericordia
L’esperienza del Giubileo a Roma con chi ha commesso delitti anche gravi e ha preso coscienza di essere amato da Dio malgrado tutto ci porta a sentirli vicini e a cercare lo stesso sguardo su di noi

Assassini, rapinatori, ladri, stupratori. Cosa ci fanno oggi nella basilica di San Pietro? Sono arrivati per incontrare Papa Leone XIV e assaggiare il sapore di un frutto che la Chiesa offre anche a chi ha vestito i panni di Caino, a chi ha tradito il patto con la società, a chi pensa di non meritarlo, quel frutto. Si chiama misericordia, parola che esprime un amore senza confini, racconta il chinarsi del cuore di Dio sulle miserie dell’uomo, di ogni uomo, e dona speranza attraverso il perdono, incarnando una giustizia che ha una misura più alta di quella umana.
I detenuti che oggi in occasione del Giubileo varcano la Porta Santa di San Pietro portano nel cuore tutto il peso del male compiuto. Ma quel male non li definisce, non è l’ultima parola sulla loro esistenza perché viene abbracciato dal sacrificio di Cristo sulla croce e consegnato a una misericordia che penetra oltre le sbarre di una cella, raggiunge l’uomo in qualsiasi condizione si trovi.
Le conosciamo bene, le condizioni in cui molti, troppi detenuti sono costretti a vivere, e tante volte le abbiamo raccontate e denunciate. Le conoscono soprattutto loro, che spesso campano in condizioni degradanti e fanno i conti con il sovraffollamento, la carenza di luoghi e occasioni per studiare, lavorare, costruire un futuro che li possa rilanciare a fine pena, e sono costretti a misurarsi con lo stigma che accompagna chi esce dal carcere. A tutto ciò si aggiunge la delusione per la mancanza di un gesto di clemenza da parte dello Stato, auspicato nella Bolla di indizione del Giubileo e da più parti invocato. Per tutti questi motivi non mancano dunque le ragioni che possono generare sconforto, rabbia e proteste.
Ma niente e nessuno può impedire che il volto della Misericordia si renda comunque presente anche in simili condizioni. E questo, non va dimenticato, accade. Accade ogni giorno: negli affetti dei familiari e degli amici, nel rapporto con gli educatori, nell’incontro con i cappellani e le suore che condividono sofferenze e gioie, nell’amicizia con i volontari che offrono tempo ed energie e tessono una grande trama di relazioni umane. Sono loro ad accendere una luce nel buio di un’esistenza che rimane comunque preziosa agli occhi di Dio. E basta che una luce si accenda perché il buio non abbia l’ultima parola, perché anche il tempo della detenzione sia vissuto con un significato. Non come una parentesi nella quale la vita si ferma, ma come un’occasione perché possa ripartire.
Una luce si è accesa in questi anni per i detenuti che hanno camminato lungo i percorsi della giustizia riparativa, un’esperienza da tempo presente ma che ha assunto dignità istituzionale con la riforma Cartabia e che mette in dialogo autori di reato e vittime con l’aiuto di un mediatore. È un modo per provare a ricucire le ferite, per promuovere la riconciliazione, per avviare una rivoluzione culturale che metta in primo piano la relazione rispetto alla contrapposizione. Nella convinzione che, come dice il criminologo australiano John Braithwaite, se il reato fa male la giustizia dovrebbe provare a guarire.
Visitando le carceri e frequentando i detenuti, chi scrive ha potuto fare un’indimenticabile esperienza educativa, è andato a scuola di vita: ha imparato a non giudicare, a non identificare le persone con il reato che hanno commesso, a scoprire il desiderio di bene che abita nel cuore di ogni persona, a capire la verità delle parole più volte pronunciate da papa Francesco quanto entrava nei penitenziari: «Perché voi e non io?».
Oggi sarò presente anche io insieme a loro, in San Pietro: non insieme ad assassini, rapinatori, ladri, stupratori, ma insieme a persone. Persone che hanno bisogno, come me, di uno sguardo di misericordia sulla loro vita.
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