Pinelli (Csm): «In cella solo chi desta allarme sociale»
Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura: «Il tema del sovraffollamento è urgente». Poi cita il capo dello Stato e ricorda che «le misure alternative hanno dato prova di maggior efficacia rispetto alla detenzione carceraria». Perciò va ripensato «il ruolo della pena»

«Il tema del sovraffollamento e della condizione carceraria è urgente». La proposta del presidente del Senato Ignazio La Russa di una modica misura di clemenza, in vista del Natale, per i detenuti a fine pena, è già archiviata, ma per il vicepresidente del Csm, l’avvocato Fabio Pinelli, il problema non è rinviabile.
Un’occasione persa?
La Russa ha riproposto da seconda carica dello Stato un tema affrontato più volte dal presidente Mattarella, mercoledì a Rebibbia come nel discorso di fine anno scorso, quando richiamò tutti al «rispetto della dignità di ogni persona. Anche per chi si trova detenuto in carcere». Poi anche la Corte costituzionale, con sentenza del 29 luglio scorso, ha ribadito la necessità di una pena che renda «praticabile il percorso rieducativo».
Ma la situazione non è cambiata.
I dati richiamano con imbarazzo la massima attribuita a Voltaire, secondo cui «il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri». E a novembre 2025 sono già 74 i suicidi tra i detenuti, dopo i 91 del 2024.
A 12 anni dalla sentenza Torreggiani della Corte Europea dei diritti dell’uomo, manca ancora un salto di qualità sull’umanizzazione della pena.
Non riusciamo a liberarci definitivamente dalla logica che ispirava il Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena del 1931, incentrato su una rigida separazione fra il mondo carcerario e la realtà esterna. L’articolo 27 della Costituzione, facendo riferimento al senso di umanità e alla rieducazione del condannato, ha cambiato prospettiva. Ma a 50 anni dalla legge penitenziaria del 1975 che introdusse benefici premiali e misure alternative, il nostro sistema penale è ancora troppo sbilanciato verso il carcere, e resta in uno stato di drammatica difficoltà.
Nordio punta a realizzare 10mila nuovi posti per il 2027 con l'edilizia penitenziaria e l’utilizzo di caserme dismesse.
ll ministro e il sottosegretario Mantovano sono intervenuti anche di recente sul sovraffollamento carcerario, segno che il problema, assai complesso, è all’attenzione del Governo. Forse si dovrebbe pensare a un nuovo ruolo della pena: il carcere, come luogo separato e chiuso rispetto alla società, placa la paura del crimine e del criminale, soddisfa il bisogno punitivo/vendicativo che il crimine suscita nella collettività. Ma l’esecuzione della pena non deve blandire chi chiede solo vendetta, sarebbe un drammatico arretramento culturale.
Il carcere viene visto ancora come un deterrente per la sicurezza.
I dati dicono il contrario: più della metà dei detenuti che scontano la pena in carcere sino all’ultimo torna a delinquere. Le misure alternative hanno, invece, dato prova di maggiore efficacia deterrente, lo conferma l’esigua percentuale di casi in cui la misura viene revocata a causa della commissione di un nuovo reato. Il carcere resta la risposta necessaria nei casi di maggiore allarme sociale, ad esempio quelli legati alla criminalità organizzata o, più in generale, che comportano rischi per l’incolumità pubblica e privata. Ma nei restanti casi, la pena dovrebbe consistere in un trattamento individualizzato che contemperi le esigenze di difesa sociale con quelle di risocializzazione.
In questa situazione però sembra un’utopia.
Il problema parte dalle difficoltà della giustizia penale. Come non siamo in grado di celebrare dignitosamente un milione e 200mila processi penali l’anno (tanti ne risultavano pendenti al 31 dicembre 2024), così non siamo in grado di seguire il percorso rieducativo delle centinaia di migliaia di persone condannate ogni anno. Per non dire dei cosiddetti “liberi sospesi”, a oggi circa 95mila, che attendono da anni di sapere se a essere aggregati ai detenuti o agli ammessi alle misure alternative.
Come intervenire, allora?
Vanno aggiornate le riflessioni di diverse Commissioni ministeriali (penso ai progetti Grosso, Nordio, Pisapia) che hanno suggerito nuove tipologie di pena alternativa. Andrebbe ripresa la lezione del giurista tedesco Gustav Radbruch, riproposta da Aldo Moro quando diceva che bisognerebbe pensare non solo a «un diritto penale migliore, ma a qualcosa di meglio del diritto penale». Occorre investire in nuove figure professionali, di sostegno sia ai detenuti che alla Polizia penitenziaria, garantendo spazi e tempi per coltivare l’affettività, permettendo ai detenuti di lavorare e di studiare: la cultura è il miglior antidoto al crimine. Andando oltre il carcere inteso come clausura, dove persino l’ora d’aria è una concessione.
© RIPRODUZIONE RISERVATA






