Il giusto contrappeso alla denatalità, oltre gli slogan e le ideologie
La presenza di un nucleo familiare è determinante nel favorire la permanenza definitiva e la piena inclusione nella società di arrivo dei migranti. L'idea di uno "Ius Familiae" nasce da qui

Siamo un Paese che continua a discutere mentre la realtà corre più veloce di noi. Sui cambiamenti che la denatalità produrrà a breve siamo ancora fermi all’analisi. I numeri li conosciamo. Le cause le abbiamo ripetute migliaia di volte. Adesso serve fare sintesi. Serve darci un obiettivo. Le analisi delle principali istituzioni economiche del Paese sono unanimi e non lasciano spazio a interpretazioni: senza un’inversione di rotta, il declino della forza lavoro porterà a una significativa contrazione economica. Confindustria, attraverso il suo Centro Studi, ha lanciato un allarme quantitativo preciso: il declino demografico sta già creando una carenza di manodopera tale che tra soli cinque anni la domanda di lavoro supererà l’offerta di 1,3 milioni di unità. E questo non è un futuro ipotetico: il 67,8% delle imprese già oggi fatica a reperire personale. La fotografia dell’Istat è altrettanto netta: entro il 2050 la popolazione in età lavorativa diminuirà del 21%, oltre 7 milioni di persone in meno. Di fronte a questa emorragia, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio prevede una perdita di 700.000 lavoratori nei prossimi cinque anni, con un contributo dell’occupazione alla crescita del Pil destinato a diventare negativo. La Banca d’Italia è stata ancora più chiara: «Senza un forte aumento dell’offerta di lavoro, l’economia del Paese, e il benessere della sua popolazione, è destinato a restringersi sensibilmente». Il rischio di un crollo del Pil, o almeno di una stagnazione cronica, non è ideologia: è la traiettoria matematica del Paese. E nel frattempo c’è un dato che dovrebbe metterci tutti sull’attenti: non esiste più un solo ente intermedio ‒ associazioni, sindacati, ordini professionali, realtà del Terzo settore, istituzioni locali ‒ che non segnali il progressivo disfacimento della propria base sociale e operativa a causa del declino demografico.
Negli anni, riflettendo con esperti, istituzioni e comunità locali, ci siamo resi conto che per invertire la rotta serve una vera strategia demografica nazionale. E questa strategia riguarda almeno quattro categorie potenzialmente genitoriali. Anzitutto gli italiani già residenti, che hanno bisogno di politiche familiari forti e impattanti per la natalità, stabilità lavorativa, un piano per la prima casa e soprattutto una fiscalità finalmente equa. Ci sono poi gli italiani di rientro, i nostri giovani che sono emigrati perché sottopagati o senza prospettive familiari e lavorative. Per loro servono lavori dignitosi, servizi e facilitazioni nell’accesso alla casa. In terzo luogo, i nomadi digitali che portano competenze, consumi, ricchezza, se trovano connettività, servizi e un ecosistema familiare efficiente. Quarto, i neoitaliani e le lavoratrici e i lavoratori, ancora stranieri, che arrivano da Paesi spesso più poveri. Per loro è decisivo poter portare la famiglia, avere formazione e integrazione vera. Ed è qui che arriviamo al punto più delicato, ma inevitabile. È tempo di una via italiana all’immigrazione, ma serve maturità. Non possiamo continuare a leggere l’immigrazione con lo schema infantile “accogliere tutto” vs “respingere tutto”. È una lente distorta che ci impedisce di vedere la realtà. Serve una via italiana, pragmatica, umana, capace di rispondere alle esigenze reali del Paese e alle richieste delle aziende che cercano disperatamente giovani lavoratori. Un percorso che sappia coniugare accoglienza, integrazione e sicurezza. La verità è che, alla luce della crisi demografica, l’immigrazione qualificata e integrata non è più un’opzione: è una necessità economica, una componente vitale in un Paese che già beneficia del contributo di una presenza straniera funzionale, sempre più “matura” e numericamente consistente. Oggi vivono in Italia 5,4 milioni di stranieri e circa altri due milioni sono quelli che sono già diventati italiani. Le famiglie con almeno un componente straniero sono quasi tre milioni e in circa un quarto dei casi risultano composte da almeno 4 componenti: il tradizionale modello della coppia con (più) figli. Ciò vale in primo luogo in quelle regioni – come Lombardia, Emilia Romagna e Veneto – dove è generalmente più avanzata l’anzianità migratoria e, di riflesso, lo è anche il percorso di integrazione.
Ma se è vero che l’esistenza di un nucleo familiare si rivela determinante, come largamente testimoniata dagli studi più accreditati, nel favorire permanenza definitiva e piena inclusione nella società ospite, perché non tenerne conto anche in tema di acquisizione della cittadinanza? A tale domanda, pur riconoscendo l’importanza dei risultati già raggiunti (645mila nuovi italiani nel triennio 2022-2024 di cui 239mila in età inferiore ai 20 anni) è sembrato utile reagire con una proposta nuova che, nel ricorrente dibattito sulla cittadinanza, provasse a uscire da quegli schemi ideologici che non ci portano da nessuna parte. Si tratta della proposta dello Ius Familiae. Di fatto, un approccio che, stante l’indiscusso ruolo della famiglia quale fattore di integrazione, interpreta l’esistenza di un nucleo familiare – inteso in termini di coppia con o senza figli e di genitore con figli – come requisito cui riconoscere un canale privilegiato, sia nella tempistica che nelle procedure, ai fini del passaggio di tutti i suoi membri alla cittadinanza italiana. Sarebbe un bel modo con il quale, da un lato, incentivare i percorsi di stabilità e il contributo della popolazione immigrata, dall’altro rivitalizzare una componente autoctona, i cittadini italiani, che nell’arco di un quindicennio sono scesi di 2,3 milioni e che a tutt’oggi (2024) registrano oltre 160mila nati in meno.
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