Una vecchiaia degna per tutti è anche restare a casa propria
La legge 33 che riorganizza la forma dell’assistenza guardando al territorio e alle abitazioni degli anziani inizia a trovare applicazione. Una sfida sanitaria e culturale oltre le Rsa

C’è bisogno di nuovi pensieri, di nuove parole e soprattutto di nuove proposte che aiutino ad inventare una vecchiaia che sia degna per tutti. In tale orizzonte vorrei ricordare la bella conquista avvenuta in Italia: la legge 33 del 2023, con la quale si intende riorganizzazione l’assistenza agli anziani non più nella prospettiva dell’assistenza residenziale, ma sul territorio e presso le abitazioni degli anziani. In una prospettiva olistica e globale, ossia capace di coniugare sanitario, sociale e assistenziale, in una risposta unica rivolta a tutti gli anziani. La Legge 33, infatti, parla di fragilità e prevenzione rivolgendosi potenzialmente all’intera platea degli over 65, con l’obiettivo di poter restare a casa o in piccole convivenze. E quanto vorrei che si tornasse a morire a casa circondati dai propri cari e dagli amici! Ma di questo parleremo ancora. Una parola in più sulla Legge 33.
Debbo sottolineare che il Parlamento l’ha approvata senza nessun voto contrario. È perciò un passo importante. In queste settimane, finalmente, inizia a trovare la sua applicazione attraverso delle sperimentazioni sul territorio nazionale con la prospettiva di estenderla su tutto il Paese. Siamo partiti dalla constatazione della carenza di un sistema assistenziale adeguato sul territorio che trasforma una domanda prevalentemente sociale e assistenziale in una richiesta di carattere sanitario e ospedaliero. La conseguenza negativa di questa carenza è stata ed è ancora la crescita abnorme di ricoveri impropri (lo stesso Ministero della salute ne calcola almeno 1,3 milioni) e di altrettanto improprie lungodegenze per la difficoltà di dimettere pazienti anziani senza assistenza alcuna. Si stima, considerando solo il versante delle ammissioni ospedaliere (8 giorni di degenza media per 712 euro al giorno), un eccesso di spesa di oltre 7 miliardi. Quello in uscita ha un valore almeno pari. Se consideriamo che per l’assistenza domiciliare si spendono meno di due miliardi l’anno, ben si comprende quanto la riforma che la Legge prospetta sia importante. Si può raggiungere così il doppio traguardo: una migliore qualità della assistenza – a casa si può e si deve essere assistiti! – e un abbassamento della spesa.
È una grande novità e preziosa opportunità, non solo organizzativa e gestionale, ma anche politica. Aggiungerei, culturale. Tralascio di parlare delle modalità dell’attuazione della Legge che avviene – come ho accennato – attraverso apposite sperimentazioni basate sul principio di uno sviluppo articolato del continuum assistenziale: ossia di servizi di rete e di prevenzione, di assistenza domiciliare integrata sociale e sanitaria, come anche di centri diurni, di assistenza residenziale capace di forme nuove, di centri multiservizi e la trasformazione di Rsa in ospedali di comunità. Questo richiede la promozione di un nuovo dialogo fra istituzioni sanitarie – Asl e ospedali, Comuni e Ambiti Territoriali Sociali e assistenziali, Inps, promuovendo quella necessaria integrazione che darà finalmente a noi anziani una valutazione dei nostri bisogni e una risposta unificata, in luogo della forsennata frammentazione che oggi noi anziani siamo costretti a vivere. È la realizzazione di un nuovo paradigma che richiede – assieme alla nuova legge – anche una nuova cultura sulla vecchiaia. Si prevede, infatti, che la società si “prenda cura” dei 14 milioni di anziani che oggi popolano il nostro paese, accompagnandoli per tutto il tempo della vecchiaia e intervenendo via via nei modi opportuni. Una cosa è certa: non si può continuare come ora! E penso in particolare alla tristezza degli anziani soli a casa o di quelli portati negli istituti. Mi permetto una parola sulle Rsa. Come ho scritto in altra parte, esse nacquero in Italia con la Legge Finanziaria del 1988, ma risalgono a molto prima, con gli ospizi e gli istituti di beneficenza soprattutto per accogliere poveri, orfani e anziani emarginati. Furono allora concepite come risposta strutturale in una fase molto iniziale del processo di invecchiamento. Oggi è cambiata la società e la vecchiaia e tale soluzione è del tutto inadeguata. Ovviamente non è in questione l’impegno degli operatori (sebbene spesso appaiano denunce di abusi gravissimi!).
Sono comunque evidenti le innumerevoli criticità, a partire dal drammatico sradicamento dalla propria casa, alla rigidità del modello, alla difficoltà di garantire una presa in carico personalizzata e soprattutto alla crescente pressione sui costi pubblici e familiari. Riguardano inoltre un ristrettissimo gruppo di anziani: su circa 3 milioni di anziani ultrasettantacinquenni non autosufficienti, solo 300.000 sono nelle RSA, mentre gli altri 2.700.000 vivono spesso soli e privi di aiuto. Ebbene per i primi si spendono dai 10 ai 12 miliardi l’anno, mentre per gli altri neppure due. Uno squilibrio assolutamente da correggere. E, comunque, una cosa è chiara a noi anziani: vogliamo restare a casa nostra! È ciò che prevede legge 33, favorendo un’assistenza domiciliare integrata sociale, sanitaria e assistenziale e anche forme di cohousing (piccoli gruppi di anziani). Quindi l’impegno è per sostenere tutti gli anziani con un nuovo contesto sociale. In Italia, quasi il 40% delle persone sopra i 75 anni vive da sola. Ecco perché dobbiamo immaginare un nuovo modo di vivere degli anziani: quello delle piccole convivenze, magari prendendosi in casa altri e di farlo con le dovute garanzie o, comunque, da inventare. La Legge 33 si occupa anche di questo. Il cuore della legge è favorire in ogni modo che gli anziani siano circondai di relazioni di amicizia, di affetto, di solidarietà, di compagnia. Mi pare decisiva questa scelta. Si sta già iniziando a realizzarla in qualche regione, costruendo nuove procedure, avviando dialoghi tra istituzioni e cittadini, sconfiggendo resistenze di apparati. Dobbiamo anche fare i conti con la carenza di infermieri, di Oss, di personale dedicato alla cura di livello più basso ma comunque formato e addestrato. È decisivo un cambio di cultura, ossia comprendere che prendersi cura gli uni degli altri è la sostanza dell’esistenza umana e della nuova visione della vecchiaia. E, a ben riflettere, potrebbe esserci un futuro anche per le Rsa se gli anziani potessero restare nelle loro abitazioni (o in piccole convivenze) e prestare a casa i servizi di cui hanno bisogno (le chiamano “Rsa aperte”). Sono lieto – all’interno di questo ciclo di riflessioni su “Avvenire” – di affermare che finalmente il cantiere è iniziato, augurandoci che gli operai si mettano alacremente all’opera. Una parola anche a noi anziani. Dobbiamo convincerci che la vecchiaia non è un periodo residuale della vita; non è una lenta e mesta cerimonia di congedo. Oggi siamo un vero e proprio “nuovo popolo” e continueremo a crescere in età e in numero.
Tra noi anziani c’è chi continua a lavorare, chi a viaggiare e chi invece è emarginato, scartato perché malato, solo e non autosufficiente. Abbiamo la responsabilità di sviluppare una adeguata cultura (che promuova concrete realizzazioni) su come vivere i venti-trenta anni in più di vita che ci sono dati. Siamo solo all’inizio, ma le premesse fanno ben sperare. È vero che – in quanto vecchi – siamo più fragili e saremo sempre più dipendenti dagli altri. Ma la fragilità – una condizione comune a tutti – se è compresa, diventa una “forza” nel senso che ci spinge a prenderci cura gli uni degli altri. Cari amici anziani – noi che siamo la prima generazione di anziani di massa – abbiamo la responsabilità di inventare una vecchiaia dignitosa perché le generazioni che salgono (i figli e i nipoti) possa no guardare con speranza il loro futuro. Una cosa dobbiamo mostrare con chiarezza e letizia: la vecchiaia è un tempo prezioso da vivere per se stessi e per gli altri.
(2 - continua)
© RIPRODUZIONE RISERVATA






