Più che ascoltare i giovani, serve esserci per loro
In un tempo di incomunicabilità l’urgenza è saper parlare di cosa è bene e di cosa è male. E, come adulti, cercare di essere di esempio

Da qualche tempo, non da poco a dire il vero, quando si parla di questioni giovanili una delle argomentazioni più ricorrenti riguarda la (scarsa) capacità di ascolto da parte degli adulti, si tratti di genitori, istituzioni, politica o società in generale. “Dobbiamo ascoltare i giovani”, si afferma, e se già un po’ lo facciamo, allora servirebbe farlo “di più” e “meglio”. C’è tanto di vero in tutto questo, però l’impressione è che più ci diciamo che i giovani vanno ascoltati, e più i giovani – e non solo perché nel frattempo crescono e vengono rimpiazzati da altri – sembrano sfuggire ai tentativi di comprensione, perché si chiudono ancora di più, o perché le loro istanze si radicalizzano. Generalizzare non si deve, è chiaro che l’universo dei giovani non può essere racchiuso in una scatola, ma se c’è un racconto mediatico attorno a loro, è con questo che ha senso confrontarsi. E la narrazione condivisa ripete che i giovani non li si ascolta abbastanza. Forse allora, considerato il fallimento dei tentativi, si potrebbe provare a modificare lievemente l’approccio e pensare che prima sarebbe utile incominciare ad ascoltare noi stessi, cioè noi grandi, o vecchi se si vuole, e poi chiederci se più che “ascoltare” i giovani non sia importante innanzitutto “esserci” per i giovani, cioè i nostri figli, i loro amici.
Ma cosa significa ascoltare noi stessi? Essenzialmente tentare un onesto confronto come generazione con la responsabilità del presente, per chiarire se esistono almeno un paio di punti fermi e accordarsi tra noi adulti intorno a cosa sia bene e cosa no. Perché ci si può disporre con apertura verso le ragazze e i ragazzi e la direzione dei loro tragitti, ma poi se non si è in grado di fissare un orario per metterli a letto o per il rientro a casa, tutto diventa difficile. Ascolto e comprensione sono concetti simili, ma fioriscono se il terreno è ricco di confronto e dialogo. Ora, c’è ancora qualcuno là fuori capace di essere un esempio, in questo? In un momento in cui alla libertà di parola si sta sostituendo la libertà di mettere a tacere le parole altrui, dai social, agli eventi, alle redazioni dei giornali? Più che ascoltare i giovani, forse si deve ricominciare dall’esserci, per i giovani. Che non significa, come un po’ semplicisticamente ritiene qualcuno, avere ancora la mamma sempre a casa, ma far capire loro che una casa c’è – dove, se possibile, costruire buoni e sacri ricordi – una famiglia c’è, e fuori dalla porta c’è anche una comunità che non si volta dall’altra parte commentando ogni volta che in fondo, cosa sarà mai, sono ragazzi, no? Esserci significa mettere innanzitutto una distanza, perché i giovani devono parlarsi e ascoltarsi per prima cosa tra di loro, sapendo che poi, se proprio serve, c’è anche l’adulto, ma, appunto, proprio un adulto, non un altro giovane insicuro e solo un po’ più vecchio. Ascoltare non è aprire le orecchie, ma far arrivare la voce alla coscienza. In questo senso può far testo il contesto ecclesiale, dove, anche qui, da più parti, si riflette sulla capacità di porsi in ascolto delle nuove generazioni e del loro bisogno rinnovato di spiritualità, salvo poi dover prendere atto di quanto le figure che dovrebbero ascoltare siano sì autorevoli, e capaci di coinvolgere, ma numericamente sempre meno. O a corto di tempo, ovvero la condizione fondamentale dell’esserci nel bisogno. Insomma, se la vocazione alla presenza è in crisi, incominciamo ad occuparlo bene questo spazio vuoto, e con la forza morale che il ruolo richiede. Il resto verrà.
I giovani devono ascoltarsi soprattutto tra loro, tra maschi, tra femmine, e anche di più tra maschi e femmine, mentre quello che purtroppo si vede è una maggiore fatica al confronto e alla comprensione reciproca, tra mondi sempre più pericolosamente monadi. È questa incomunicabilità generazionale, che dalle aule di scuola sembra riproporsi nelle piazze, nella radicalizzazione delle posizioni ovunque, nella difficoltà a riconoscere e poi a tutelare i presìdi della democrazia, a doverci preoccupare. In un tempo in cui non è difficile scorgere fame e affamati, anche di giustizia, l’urgenza diventa parlare di cosa è bene e di cosa è male, non di cosa è destra e cosa è sinistra. Il compito dei giovani non è così difficile, è quello dei grandi, e dei genitori, a essere diventato terribilmente impegnativo.
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