Riportiamo la Costituzione nelle prigioni italiane
Se vogliamo invertire la rotta che porta alla rovina della città, come ha invitato a fare l'arcivescovo di Milano, Mario Delpini, incominciamo dai carcerati

Un crollo rovinoso minaccia la casa comune, ha detto l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, nel discorso alla città per la festa di Sant’Ambrogio. Uno dei segni del pericolo è l’«intollerabile situazione delle carceri e la repressione come unica soluzione». Ne sono segni anche lo smarrimento dei giovani, le città che espellono i loro cittadini, il declino del welfare, un capitalismo basato sull’indifferenza. Ma mentre è più facile riconoscere in questi fenomeni manifestazioni di un grave pericolo – ne percepiamo tutti gli effetti – il segno di un modo intollerabile di trattare i carcerati va controcorrente: riguarda, infatti, uomini e donne separati dagli altri e invisibili agli occhi dei cittadini comuni.
Parole troppo severe quelle di monsignor Delpini? Il suo è un linguaggio apocalittico? Anche quelle di Giovanni Battista, ha detto Leone XIV, sembrano troppo severe. Sempre più spesso la Chiesa deve gridare nel deserto. Ed è un deserto quello in cui viviamo oggi, perché il primato del business ha generato una cultura del nemico e una legge del più forte che minacciano tutte le forme di convivenza umana. Le guerre che dilagano nel mondo umiliano le organizzazioni internazionali con cui i nostri padri hanno sognato di costruire una casa per l’intera umanità. Per lungo tempo l’Occidente ha rappresentato una casa per milioni e uomini e donne, ma oggi proprio dal suo Paese leader viene l’annuncio che questa casa non esiste più. Ed è seriamente minacciata anche l’unità europea, un’altra casa comune costruita faticosamente dopo secoli di divisioni e violenze, fondandola su pace, dignità della persona, bene comune, libertà di tutti. Parole severe e linguaggio apocalittico squarciano il velo dell’abitudine, delle illusioni e della rassegnazione che impediscono di cogliere la gravità di quanto sta avvenendo. Non è esagerato – come ha fatto Delpini – riconoscere che minacciano di crollare le principali forme di convivenza umana e la civiltà che le ha fondate, così come non è inutile invocare una reazione e chiamare tutti ad impegnarsi per impedirlo. Soprattutto, è importante mantenere salde la fede e la speranza che ciò avvenga. Grandi poteri stanno sconvolgendo il mondo, ma tutti possono fare qualcosa e l’opera anche solo di pochi giusti può salvare la città.
Anche la casa comune degli italiani è in pericolo se ne tradiamo il fondamento, la Costituzione, imponendo ai carcerati di vivere in condizioni di «squallore, degrado e violenza»; rendendo loro inaccessibili «percorsi di reinserimento sociale»; facendo prevalere nelle indicazioni normative «l’accanimento repressivo». All’arcivescovo di Milano hanno fatto eco i vescovi lombardi, firmando tutti insieme un messaggio per il Giubileo delle persone detenute, che non ha niente di eversivo: si sono impegnati «a diffondere una cultura della legalità, dove ognuno sia chiamato a prendersi le proprie responsabilità». Ma sono tornati anzitutto «a chiedere un gesto di clemenza da parte dello Stato, per sfoltire le carceri […] e permettere di ripartire con nuova attenzione al trattamento e alla qualità delle condizioni umane» nelle prigioni italiane. Amnistia e indulto sono previste dalla Costituzione e il tasso di recidiva di chi ha beneficiato dell’ultimo indulto – nel lontano 2006 – è stato più basso che per quanti non ne hanno beneficiato.
Davanti a queste richieste le autorità finora hanno taciuto. Non è stata accolta neppure l’ipotesi, ben diversa, di prevedere un’esecuzione alternativa della pena, come gli arresti domiciliari, per coloro che avessero un residuo di pena limitato. Diminuirebbe il sovraffollamento – nelle carceri italiane c’è il 137% di detenuti rispetto al numero massimo di posti disponibili, in alcuni casi di oltre il 200% – uno dei fattori che più concorre all’altissimo numero di suicidi, alle condizioni di degrado, all’inattività forzata, alle malattie mentali... Le autorità si dicono allarmate perché le carceri sono fuori controllo, ma stiparle all’inverosimile creando nuovi reati, chiudere la porta e buttare la chiave non è la soluzione. Favorisce, tra l’altro, la violenza di chi continua a delinquere anche in detenzione, impedendo ai più deboli di uscire dalla strada del crimine. E certamente non aiutano disposizioni che rendano più difficile far entrare in carcere volontari, educatori, operatori sanitari, uomini e donne di cultura…
Cominciamo dai carcerati se vogliamo invertire la rotta che porta alla rovina della città. La situazione nelle carceri non è responsabilità solo degli addetti ai lavori: la Chiesa parla a tutti perché il problema riguarda ogni cittadino. «L’orientamento di una mentalità repressiva che cerca la vendetta piuttosto che il recupero segnala una crepa pericolosa nella casa comune», ha spiegato Delpini. Costringere i carcerati a vivere in situazioni intollerabili significa rompere il patto su cui si fonda la vita della città intera. Se smettiamo di considerare i carcerati come nemici da annientare contribuiamo ad arginare la legge del più forte che minaccia oggi tutte le forme di convivenza. È interesse di tutti riportare la Costituzione in carcere. E se i vescovi non trattano la Costituzione come una legge simile a tante altre è perché c’è qualcosa di evangelico nei suoi principi ispiratori ed è il Vangelo la roccia su cui l’uomo saggio costruisce una casa che non crolla.
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