Jan Patočka: perché il mondo naturale è un problema filosofico
Cosa salva la vita dal diventare una somma di pezzi scompagnati senza una visione unitaria del senso del mondo? Secondo Patočka per contrastare il nichilismo bisogna percorre la via della verità

Cosa salva la mia vita dal diventate una somma di pezzi scompagnati senza una visione unitaria del senso del mondo? Questo interrogativo è la traduzione, sul piano esistenziale, della domanda al centro della cosiddetta rinascita antropologica della filosofia del Novecento, seguita alla crisi del dominio ottocentesco del modello scientifico-positivista in ambito filosofico e venuta allo scoperto all’indomani della fine della Prima Guerra Mondiale: di questa rinascita, il filosofo boemo Jan Patočka (1907-1977) è stato uno dei protagonisti indiscussi, anche se meno noti rispetto ad altri (come i suoi due maestri Edmund Husserl e Martin Heidegger) e sul quale è quindi necessaria una riscoperta che giunge adesso a una tappa importante con la prima edizione italiana, per Orthotes, di alcuni suoi scritti, a cura e con traduzione di Saverio Alessandro Matrangolo (Il mondo naturale come problema filosofico, p. 289, euro 24)
L’opera di Patočka ha cominciato a essere conosciuta nel nostro Paese a partire dall’inizio del nuovo millennio, ma resta comunque indispensabile, per comprendere la “soluzione” patočkiana al problema del significato unitario del mondo, confrontare tra loro due degli scritti che vengono adesso proposti in traduzione italiana: nel primo dei quali (che dà anche il titolo al volume) Il mondo naturale come problema filosofico (risalente al 1936), il filosofo boemo (nato a Turnov nella Boemia settentrionale) imposta il problema, su cui però giunge a una comprensione definitiva solo nel secondo, la Meditazione (cioè “Il mondo naturale” nella meditazione del suo autore trentatré anni dopo), composta alla metà degli anni Sessanta, quando la Cecoslovacchia, dall’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale, si trova sotto la sfera di influenza sovietica.
Lo scritto del 1936 è la tesi di abilitazione di Patočka all’insegnamento presso l’università ceca di Praga e in esso egli si pone ancora sulla scia del proprio maestro Edmund Husserl (il fondatore della fenomenologia), ritenendo quindi che a essere in grado di dare un significato unitario al mondo sia solo l’attività conoscitiva del soggetto (pensiero e linguaggio), quel tertium che consente all’uomo di unire la vita vissuta nell’ambiente naturale con le convinzioni provenienti dalla scienza moderna. Tuttavia, la frequentazione, un paio di anni prima, nella tedesca Friburgo in Brisgovia, delle lezioni del nuovo Rettore dell’Università Martin Heidegger (il più famoso tra gli allievi di Husserl), lo stanno già spingendo a rivedere questa posizione: e a intraprendere un percorso che lo porterà a negare il ruolo del soggetto pensante e, quindi, della scienza moderna.
A Friburgo Patočka viene benevolmente accolto da Husserl (che vi insegna dal 1916 e come professore emerito dal 1928), ma inizia a distaccarsi dalla fenomenologia husserliana e ad avvicinarsi alla emergente prospettiva heideggeriana, trovando sostegno in filosofi e studiosi che arrivano a Praga dalla Germania, a partire dai primi mesi del 1934, in seguito alla nomina di Hitler a Cancelliere del Reich: Patočka invita a Praga Husserl stesso, il quale, giuntovi nel 1935, tiene due conferenze, una presso l’università tedesca e una presso l’università ceca, che costituiscono La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il suo testamento filosofico, nel quale anch’egli si mette sulla scia del proprio allievo Heidegger, sostenendo che l’orizzonte all’interno del quale le cose si mostrano alla coscienza non è più l’attività conoscitiva del soggetto, ma il soggetto inteso come esistente, vale a dire nella sua relazione con «il mondo naturale della nostra vita».
Husserl muore tre anni dopo (nella primavera del 1938), non facendo in tempo a vedere l’annessione hitleriana della Boemia nel 1939, in seguito alla quale Patočka lavora come insegnante di ginnasio, ma, nell’autunno del 1944, è condannato ai lavori forzati dai nazisti. L’anno dopo, nel maggio 1945, Praga cade in mano ai sovietici. Ed è proprio nella nuova epoca comunista che egli porta a compimento il passaggio dal soggettivismo husserliano all’esistenzialismo heideggeriano, in una condizione non facile, che inizialmente lo vede insegnare Storia della filosofia all’Università Karlova, ma solo fino all’estate del 1949, quando non supera la verifica del partito comunista e si rifiuta di entrarvi, venendo estromesso dall’insegnamento: la Meditazione, frutto del suo ripensamento heideggeriano, viene pubblicata solo nel 1970 (con una previsione di tiratura di 2200 copie ridotta però a 300), due anni dopo la riabilitazione avvenuta nel contesto della “Primavera di Praga”, che gli consente di riprendere a insegnare all’Università Karlova, ma solo fino a quando, nel 1972, il nuovo regime, instauratosi in seguito all’invasione sovietica, lo costringe al pensionamento anticipato e ritira le sue pubblicazioni dalle librerie.
Da questo momento in poi, i testi di Patočka iniziano a circolare clandestinamente nel samizdat e sono pubblicati all’estero, come il terzo degli scritti che compongono il volume, cioè la Postfazione all’edizione francese del “Mondo naturale come problema filosofico” (1976): essi costituiscono punti di riferimento imprescindibili per l’opposizione anticomunista cecoslovacca che, qualche anno dopo, dà vita al movimento di “Charta ’77”, di cui Patočka stesso è uno dei primi firmatari e uno dei primi portavoce, insieme a Václav Havel e Jiří Hájek.
Arrestato dal regime il 2 marzo 1977 e interrogato per dieci ore, viene ricoverato in ospedale a Praga, dove muore il 13 marzo. Ai suoi funerali, partecipano circa mille persone, nonostante i servizi segreti si siano serviti di ogni mezzo per impedirlo: viene anche modificata la viabilità per rendere più difficile raggiungere il luogo delle esequie e, durante la funzione, un elicottero della polizia sorvola la zona per impedire che la gente la ascolti. Ma, si legge in uno dei suoi ultimi scritti per “Charta 77”, «la gente sa nuovamente che esistono cose per cui val la pena soffrire, e che le cose per cui eventualmente si soffre sono quelle per cui val la pena vivere».
L'inedito: Il mondo naturale come problema filosofico
Pubblichiamo, da Il mondo naturale come problema filosofico (1936), il passaggio nel quale Patočka sostiene che solo un’attività del soggetto è in grado di dare una forma unitaria al mondo, che invece né la vita moderna, né le scienze moderne, a differenza della società antica e medievale, sono in grado di comprendere.
Jan Patočka
«L’uomo moderno non ha una visione unitaria del mondo; vive in un mondo duplice, vale a dire nel suo ambiente naturalmente dato e nel mondo prodotto per lui dalle scienze naturali moderne, fondate sul principio che la natura è regolata da leggi matematiche. Questa dicotomia pervade tutta la nostra vita e costituisce la fonte stessa della crisi spirituale che stiamo attraversando. Comprensibilmente, i pensatori, i filosofi hanno cercato in qualche modo di superarla; tuttavia, essi hanno spesso ricondotto il superamento al tentativo di sbarazzarsi di uno di questi due elementi, di ridurre logicamente l’uno all’altro, di fare dell’uno – in genere sulla base di considerazioni casuali – una conseguenza e una componente dell’altro. Si tratta di problemi che sono stati recepiti, in particolare, dal positivismo moderno, ma che non sono stati mai effettivamente posti e completamente risolti in quel contesto.
È possibile, nondimeno, che vi sia una soluzione diversa, rispetto al ripercorrere la scia di queste alternative, una soluzione che, allo stesso tempo, si adatti al modo moderno di comprensione storica di tutta la realtà: una soluzione che non preveda di ricondurre – ridurre – il mondo naturale al mondo scientifico o viceversa, ma di ricondurre entrambi a un terzo. Questo terzo non può che essere un’attività soggettiva, capace di dare, in maniera diversa, ma pur sempre legittima e ordinata, una forma a quel mondo. L’unità che sottende la crisi non può essere l’unità delle cose di cui è composto il mondo, ma l’unità dinamica delle attività che lo spirito è in grado di compiere. […]
Il problema della filosofia è il mondo in totalità. Pur corrispondendo a fatti storici, questa tesi suscita una resistenza immediata in noi che ci siamo formati alla scienza moderna. Le scienze hanno diviso il mondo in parti e solo il pensiero scientifico specializzato sembra essere preciso, rigorosamente controllabile e, di conseguenza, teoricamente significativo. La riflessione sulla totalità, l’ontologia classica, è esplosa sotto la pressione di considerazioni critiche, ma nella nostra coscienza culturale non è stata sostituita da alcunché di unitario. Uno degli aspetti caratteristici della vita moderna è costituito dal fatto che la nostra forma di vita non appartiene a nessuna determinata visione del mondo, che la nostra società non ha, come quella antica e medievale, un’immagine unitaria e completa, una rappresentazione della disposizione della realtà. Per quanto una traccia di una siffatta visione possa anche essere riscontrata, il complesso che si delinea appare fortemente negativo e semplificato rispetto ad altre visioni del mondo: non vi è più la chiusura su di sé tipica del mondo antico e medievale, la vita e l’essere umano sono stati ricacciati fuori dal centro della comprensione, il non vivente ha sostituito il vivente. Dio come concetto esplicativo è stato rimosso. È possibile dire, nondimeno, che tutti questi cambiamenti nella rappresentazione del mondo hanno un unico obiettivo, e quindi un’unica direzione: la disantropomorfizzazione del mondo. Le cose del mondo non devono essere comprese nel modo in cui comprendiamo altri esseri simili, prossimi a noi o viventi. […]
In una situazione del genere, siamo ancora in grado di filosofare? E quale significato può assumere la filosofia per noi? La nostra coscienza della realtà può essere ancora unificata da qualcosa di diverso dalle regole fondamentali del metodo scientifico? In questa situazione, può la filosofia sperare di avere un qualche effetto sociale?».
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