Da Giobbe al Qohelet: cosa la Bibbia può insegnare sulla libertà

Nel nuovo libro di Sandro Tarter l’inesauribile confronto tra filosofia e Scritture
December 9, 2025
Da Giobbe al Qohelet: cosa la Bibbia può insegnare sulla libertà
"Giobbe", dipinto di Léon Bonnat (1880; Parigi, Musée d'Orsay) / WikiCommons
In due libri della Bibbia le domande della filosofia sembrano aver trovato casa: Qohelet e Giobbe. Nel primo in forma di quasi-scettiche meditazioni sulla vacuità del mondo e le sue pur legittime ma effimere gioie; nel secondo in forma di ostinate domande, anzi di lamentele sulla “giustizia giusta” e sull’onnipotenza divina, ovvero sulla capacità del Creatore di ben governare la sua creazione. In effetti, che ci stanno a fare trentacinque capitoli di interrogativi critici, di obiezioni e di controbiezioni, nella storia un uomo sì colpito da grandi disgrazie ma che alla fine torna integro in salute e remunerato con il doppio di quanto aveva perduto, quale premio alla sua fedeltà? Nelle domande di Giobbe da sempre i filosofi moderni si sono riconosciuti, da Pascal a Kant, da Kierkegaard a Rosenzweig, da Jung a Šestov, intuendo che la forza ispirata e ispirante di quest’opera, tanto astorica quanto sempre contemporanea, non sta nella sua cornice fiabesca con happy end ma proprio nello spirito della contestazione, nel riv (ebraico per contesa) tra un’idea onnipotente del divino e la misura troppo fragile della nostra libertà, che pur essendo ben poca cosa dinanzi alla complessità della creazione, tuttavia sembra sfuggire a ogni prevedibilità, alle leggi di natura, alle ragioni dell’eterna (in)consistenza del tutto. Le sofferenze nella carne e nell’anima di Giobbe sono un’incrinatura e una lacerazione nella perfezione della divina sapienza, grida quest’opera scritta in un ebraico ostico e pieno di apax; esse sono una sporgenza che sembra sottrarsi a ogni asserita sapienza e rivendicare una verità più vera e una giustizia più giusta, delle quali soltanto la libertà individuale intuisce l’esistenza e per le quali è disposta a pagare il prezzo che valgono. In filigrana, nel libro di Giobbe è già tratteggiato il conflitto inesauribile tra filosofia e fede abramica, tra metafisica e insofferenza per la “chiusura” di ogni infinito razionale, persino tra teologia (in fondo gli amici di Giobbe non sono raffinati teologi?) e quella vita che non si lascia soggiogare da nessun discorso consolatorio e passepartout.
Questi e altri simili pensieri affiorano alla lettura dell’intrigante volume di Sandro Tarter intitolato, per amore di paradosso, La ferita dell’onnipotenza. Quello che la Bibbia può insegnare sulla libertà (Mimesis, pp.414, 30 euro), opera che raccoglie un lungo percorso teoretico, durato decenni, tra fenomenologia e pensiero ebraico, in pillole tra Heidegger e Marion da un lato e Levinas e Jankélévitch dall’altro, passando attraverso la rilettura midrashica della Bibbia stessa così come risuona nei commenti biblici di Wiesel e Neher, di Buber e Chalier. Il volume di Tarter è attraversato pure da una grande inquietudine, caratteristica di tutti i cercatori della verità capaci di scavare nelle tracce della “radice che ci porta”, greca o biblica che sia; ma non si tratta di un’inquietudine ansiosa e patogena, al contrario essa si rivela fermento ed enzima, che elabora se stessa in chiave di consapevolezza teologica (che forse per qualcuno sarà anti-teologica), vale a dire in chiave di dubbio che anche quei sublimi concetti chiamati onnipotenza e infinito altro non siano che gli ennesimi antropomorfismi dei quali in fondo non possiamo fare a meno, per pensare il divino, dei quali cioè abbiamo bisogno proprio per dire la nostra eccedenza di senso rispetto al presunto tutto che esprimono. Sandro Tarter, che insegna metafisica ed etica filosofica all’Istituto superiore di scienze religiose a Bolzano, ha scritto un intenso e provocatorio manifesto sulla libertà umana per le filosofie del XXI secolo, quelle che vorranno ancora cimentarsi con le grandi questioni lasciate irrisolte dalla parabola della modernità ormai al tramonto. Nel suo delirio onnipotente (oggi incarnato nelle intelligenze artificiali) l’homo sapiens sapiens ha provato a se stesso di essere libero oltremisura ma vulnerabile, a rischio etico, esposto alle smisurate responsabilità connesse a quella sua libertà di cui non sempre coglie le implicazioni: da qui le domande su cosa sia la conoscenza del bene e del male per l’essere umano oggi; cosa significi misurare il mondo, anzi l’universo, dinanzi all’incommensurabilità del dolore che ancora gli esseri unani si infliggono reciprocamente; quale senso abbia mettere al mondo nuove vite in un orizzonte apocalittico come il nostro. Ma, si chiede Tarter, sono davvero domande nuove? Non sono forse “le domande” che da Giobbe ed Eraclito in poi riecheggiano in tutta la nostra tradizione e che la Bibbia già elabora come pungolo posto indirettamente a quel pensiero greco che ha originato e accompagnato l’Occidente fino all’attuale orizzonte?
La ferita dell’onnipotenza, evocata dal titolo, è una metafora nella metafora, un midrash sulla nostra creatività filosofica quando dice quella sporgenza etica, quella dis-proporzione di senso, quella rischiosa o difficile libertà (secondo il bel titolo di Levinas) che tanto ci fa umani e che Iddio benedetto, per chi crede esista, apprezza al punto da lodare la contestazione di Giobbe più delle belle e organiche teologie consolatorie dei suoi amici, salvati da Dio ironicamente in grazia dell’onestà intellettuale del suo sofferente contestatore. Tarter conclude: “Noi non siamo marionette nelle mani dell’Onnipotente”, che forse così onnipotente non è, se possiamo sfuggire alle maglie del suo provvidenziale ordito. Ma non è questa la nostra prova nonché la riprova che siamo stati creati – altra metafora sublime della narrazione biblica – a Sua immagine e somiglianza? Come scrissi anni fa, la lama del coltello che pende sulla “legatura di Isacco” (cioè la più alta prova di fede nella vita di Abramo) non è stata smussata e ancora si offre a conforto, se non a consolazione, di ogni nuova generazioni di credenti.

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