Controllo dei dati e disinformazione: c'è un disegno neocoloniale contro di noi

L'internazionale del disordine coinvolge Cina, Russia e Corea del Nord. Ogni potenza ha una propria strategia per conquistare potere e destabilizzare le democrazie fragili. Ecco la mappa che spaventa l'Occidente, già indebolito dall'egemonia delle "big tech"
December 11, 2025
Controllo dei dati e disinformazione: c'è un disegno neocoloniale contro di noi
Vladimir Putin, Xi Jinping e Kim Jong Un insieme lo scorso settembre a Pechino
A ciascuno il suo. Nella mappa di chi controlla i nostri dati, non c’è nessuna zona franca. Da Est a Ovest, infatti, il disegno neocoloniale delle nuove potenze divide et impera. Ciascun gigante ha il suo interesse da difendere, insieme a un metodo di conquista (e di dominio). Non conta se si è in presenza di una democrazia o sedicente tale, di un’autocrazia o di un regime illiberale. Conta la gestione del potere per il potere, attraverso mezzi leciti e illeciti. Conta l’egemonia sulle fonti, la manipolazione dei numeri, il monitoraggio guidato della politica. Così va riducendosi però la sovranità popolare, tanto sbandierata da leader vecchi e nuovi: se sopra le nostre teste si agita un Grande Fratello che cambia, a seconda delle latitudini, dove mai sarà possibile trovare un porto sicuro della democrazia in cui tornare a confrontarsi con la verità dei fatti, la libertà delle opinioni e il diritto a esprimere la propria idea senza costrizioni?
Nella scacchiera del mondo sono nel frattempo rinati i muri e le ideologie, grazie all’indifferenza generale. Come si diceva, ciascun blocco di potere nell’internazionale del disordine gioca la sua partita. Volete degli esempi? La Cina punta sull’ingerenza diretta nella vita dei cittadini, vigilando sui social e sulla Rete in maniera maniacale. Il caso di WeChat, una super-App usata a Pechino per una serie di servizi necessari alla vita quotidiana, dalla comunicazione ai pagamenti, è lì a ricordarcelo: una piattaforma tecnologica pensata anche per le imprese consente infatti al governo di conoscere, controllare e censurare se necessario gli abitanti del Paese, fino al blocco di account di utenti che condividano contenuti ritenuti sensibili. Se la Cina pensa a gestire lo spazio interno in modo totalitario, senza nulla concedere sul fronte delle libertà individuali, la Russia fa l’opposto: guarda altrove, all’esterno e da molti anni ormai scommette sulla cosiddetta dezinformatsiya, la disinformazione che vuole estendere il virus del sospetto e della sfiducia nelle vicine democrazie occidentali.
Anche questo fa parte della “guerra ibrida” che ha come primo terreno di battaglia l’Ucraina, su cui non a caso recentemente è intervenuto il ministro della Difesa, Guido Crosetto, annunciando una task force nazionale che ha l’obiettivo di reclutare 5mila super-esperti di cybersicurezza in un’Arma civile e militare. Poi c’è la Corea del Nord, dove l’obiettivo del regime pare essere invece quello di creare incertezza attraverso gli attacchi informatici: nelle scorse settimane è emerso che, soltanto nel 2025, gli hacker nordcoreani avrebbero rubato più di 2 miliardi di dollari in criptovalute, attraverso oltre 30 blitz nel dark web. «Basta mettere in fila i fatti per capire che i dati dei cittadini diventano esplicitamente una miniera usata a fini politici dai regimi e dai governi» sintetizza Marianna Vintiadis, economista formatasi a Cambridge, ora partner di Rsm Italy, azienda leader nel settore della consulenza globale.
Sin qui, il focus ha riguardato i regimi. E le democrazie? Nei mesi scorsi, indirettamente, sul tema è intervenuta Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione Ue, dicendo che «il mondo cambia in fretta e l’Europa deve stare al passo». Poi ha declinato il suo pensiero, aggiungendo che «si tratti di energia o materie prime, difesa o digitale, l'Europa deve lottare per la propria indipendenza. E questo è il nostro momento per farlo». Il tempo è tiranno, però, quando si parla del Vecchio continente e dei suoi cronici ritardi. Il peso che dobbiamo sostenere non è solo quello della carta e della burocrazia: sulla privacy, ad esempio, Bruxelles è sempre stata più avanti nella tutela dei diritti rispetto al resto del mondo, dicono gli esperti, anche se dotarsi di norme non è per forza garanzia di maggior trasparenza e controllo. Lo ha dimostrato la recente frenata della Commissione Ue sull’adozione del cosiddetto “Ai Act”, che dovrebbe regolamentare l’intelligenza artificiale ed è stato rinviato dall’agosto 2026 al dicembre 2027, mentre si sta spingendo sul “Digital Omnibus”, che asseconda le spinte delle Big Tech, liberalizzando di fatto un sacco di dati personali con la scusa di una minor burocrazia. A metà della piramide, che al suo vertice ha il potere delle big tech, in particolare americane, alleate con i governi e alla base pone i nuovi cittadini “sudditi”, c’è il sistema dei media, che ha avvertito gli scricchiolii del sistema informativo già un po’ di anni fa e oggi si fa nuovamente portavoce dei timori del “vecchio mondo”.
Per usare una metafora utilizzata recentemente da Marina Berlusconi, presidente di Fininvest e di Mediaset, nel rumore di fondo del nostro tempo «la libertà e la democrazia sembrano spesso voci isolate, ma sono le uniche che vale la pena di ascoltare». Attraverso quali canali, se l’ombra della propaganda e della falsificazione si diffonde ovunque? I vecchi media in particolare possono essere una soluzione alternativa al mainstream improntato all’odio della modernità? «Non è più solo un problema degli editori, riguarda tutti» osserva la stessa Marina Berlusconi. È vero che i colossi delle big tech non sono più aziende private, ma veri e propri attori politici. Ed è altrettanto vero che la loro rendita di potere non è legata ai chiaroscuri dell’attualità. In questo modo Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, è riuscito a passare in modo disinvolto dal sostegno a Barack Obama a quello per Donald Trump, attraversando senza colpo ferire scandali come quello di Cambridge Analytica. Lo stesso vale per Elon Musk, deus ex machina del nuovo Trump II, poi accantonato e già pronto a tornare in auge quando il business lo chiede. Sono sempre Usa e Cina, in questo nuovo bipolarismo selvaggio, a inseguirsi l’un l’altro, ciascuno con le proprie caratteristiche: così a Chat Gpt, Pechino ha risposto con Deep Seek, una piattaforma di intelligenza artificiale open source sviluppata da una start up cinese, si dice, con un algoritmo costato poche centinaia di migliaia di dollari.
«La vera risposta al fenomeno delle fake news può arrivare solo dai professionisti. Guardate il New York Times: controlla tutto ed è credibile» osserva Vintiadis. Insomma, la vera sfida del consenso resta quella di sempre: investire nella credibilità di chi racconta e nella veridicità delle fonti. Per difendere la propria indipendenza e il valore della categoria, anche la Fnsi, il sindacato dei giornalisti italiano, ha protestato con una giornata di sciopero, in un periodo in cui istituzioni come Banca d’Italia e Corte dei Conti, oltre alle Authority, sono finiti nel tritacarne politico-mediatico. Sono infatti gli enti “terzi” che una volta sancivano la sacralità dei dati e fotografavano la quotidianità (e che adesso sono tornati pesantemente in discussione, basti pensare alla Fed in America) ad essere messi in discussione. L’obiettivo, per chi nella società civile si sta mobilitando, è fare tornare questi soggetti ad avere il ruolo che a loro spetta: certificare e riconoscere la realtà per quella che è. A quel punto, il patrimonio di fiducia che per decenni le generazioni sono riuscite a trasmettersi e che adesso appare carta straccia, tornerà a essere capitale da spendere per ricostruire relazioni e valori, base necessaria per le democrazie di domani.

© RIPRODUZIONE RISERVATA