Quante volte c’è scritto “speranza” nei Vangeli? Chiedetelo ai detenuti

Il cappellano del carcere di Busto Arsizio accompagna a Roma un gruppo di reclusi per varcare la Porta Santa di San Pietro vivendo con loro il Giubileo, insieme al Papa. E ci svela un sorprendente “segreto”
December 13, 2025
Quante volte c’è scritto “speranza” nei Vangeli? Chiedetelo ai detenuti
Quante volte compare la parola “speranza” nei Vangeli?
Ogni volta che inizio una predica con una domanda è molto elettrizzante. L’uditorio intuisce che la risposta non è scontata. Gli occhietti brillano, sembra di vedere i pensieri muoversi nelle menti di chi ho davanti. Dietro le palpebre di occhi che si chiudono per pensare; sotto la calvizie che sa di lunga esperienza. Qualcuno sussurra qualcosa nell’orecchio al vicino: magari sa la risposta o pensa di saperla. E poi c’è chi gioca d’azzardo dentro di sé e, come ogni giocatore, vuole vincere. Sembra di leggere libri aperti e sognanti. Qualcosa di ludico, che fai guardando i bambini sulle prime panche, ma dove sono soprattutto i grandi a giocarsela. La risposta sarà 3: il numero della Trinità. No, sarà 7, come i doni dello Spirito. E perché no: 40, come gli anni di Mosè nel deserto.
La risposta è zero. E lo scrivo con la parola, perché il numero dà poca soddisfazione grafica. Sento già l’obiezione di chi è andato a frugare nel telefono. Nella traduzione italiana compare due volte, in realtà, nel Vangelo di Giovanni. Ma una in greco è il verbo sperare, messo a sostantivo nella traduzione. L’altra non c’entra proprio niente, ma vuole rendere un passaggio non facile da mettere in italiano. La parola vera propria, nel testo greco, non c’è. La ‘speranza’ è latitante nei quattro Vangeli. O potremmo dirla provocatoriamente così: il Vangelo è un libro ‘senza speranza’. Senza la parola ‘speranza’. Eppure, sapete, quando si studiava esegesi, in seminario - quella materia che viviseziona i testi biblici come un chirurgo sviscera un corpo - ci dicevano che l’abbondanza di ricorrenza di un lemma è un dato significativo della sua oggettiva rilevanza. Idem il contrario, ovviamente. E poi, insomma: è mai possibile che a tutti e quattro gli evangelisti, così diversi tra loro, per età, provenienza, sensibilità e platea (ossia il ‘per chi’ scrivevano)… è mai possibile che a nessuno di loro sia venuta alle labbra la parola ‘speranza’? “Elpìs”, traslitterata dal greco. L’amico Stefano Nazzi ci farebbe due ore di podcast su un mistero così intrigante. Non solo. Sono sicuro che tu che leggi non ci credi. E starai andando su internet a cercare "Bibbia" (quella della Cei del 2008, mi raccomando) e starai provando con le tue mani. “Mannaggia, ha proprio ragione!”. Me lo dico da me, ma è sempre una gran soddisfazione!
Ora viene il bello. Perché non possiamo non chiederci: come mai? Come mai la parola ‘speranza’ è latitante nei quattro Vangeli? Come mai ci sono 133 ricorrenze del vocabolo in tutto il corpus biblico, ma ‘0’ nei racconti della vita di Gesù? Ma il bello più bello è che… "una" risposta non c’è. Una. Una elitaria, certa, granitica. Quindi possiamo addentrarci in questo buio con la luce della "fantasia spirituale". Non tutto è lecito, ma nulla è adamantino. E come cantava Niccolò Agliardi: “Il buio è diverso dal vuoto”. Cerchiamo significati.
La prima risposta che la gente sulle panche accende nella sua mente fa brillare gli occhi, ma subito ci si rende conto che potrebbe sapere di ovvio: la Speranza è Gesù. Ha il suo volto, il suo nome. Ha il sapore delle sue parole e dei suoi gesti. La sentiamo nell’aria quando le reti strabordano di pesci e quando tira fuori Lazzaro dal sepolcro. Ne avvertiamo il profumo, dolce e intenso, quando vediamo il paralitico alzarsi, dopo che gli ha perdonato i peccati, e quando apre i pugni già carichi – d’odio e sassi – dicendo: “Chi è senza peccato scagli...”. Ne vediamo la magia all’opera quando riesce a riconsegnare verità dure delle persone che incontra, con una tenerezza che rende possibile un domani: “Nessuno ti ha condannata? Neanch’io ti condanno. Ora va e non peccare più”. E ancora: “Hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito”. Chi di noi si prenderebbe la briga di sbrigliare catene così profonde della vita di una persona? Chi chiamerebbe le cose col loro nome, con tanta audacia, come ha fatto Gesù? Sì, qui la respiriamo a pieni polmoni. La latitante non è poi così lontana.
Forse però questa risposta, per quanto potente nella sua suggestione, non ci basta. Forse intuiamo che nelle parole di Gesù ai suoi discepoli… forse era lì sul labiale, pronta a uscire. Forse i ricordi si sono un po’ annebbiati e quando si è deciso di inchiostrarli è rimasta nell’anticamera della memoria. Eppure vien da difficile non coniugarla, quando il Maestro dice: “Voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo”. Di cos’altro avrà da sapere questo mondo? Quale argine alla notte che non sia il rilucere della speranza? Certo la fantasia spirituale ci fa smagliare un po’ dal canone, ma non così tanto. Quando Gesù li guarda in faccia e gli dice: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Non lo sentite che era lì sul labiale? Cos’è che hanno ricevuto e hanno da dare, se non lei, la nostra latitante? Pescatori che ‘sbarcavano’ il lunario, incallendosi le mani, moriranno a testa giù in una città dove mai e poi mai avrebbero pensato d’arrivare: Roma. Ha qualcosa di epico la narrazione della speranza nella vita degli apostoli di Gesù. Ma poi l’invito al perdono così pressante: fino a settanta volte sette, fino a considerare sciolto in cielo quel che qui, per mano degli apostoli, sarà sciolto… non sa forse di futuro? Quel futuro che ha i lineamenti della nostra latitante? Cos’altro può far ripartire la vita di un uomo dopo l’errore, se non il perdono? Cos’altro può accendervi dentro vita nuova se non… la speranza?
Ora qui si potrebbe andare per le lunghe assai. Questa nostra chiacchierata d’inchiostro è piacevole, ma bisogna andare a chiudere. La meraviglia è che una conclusione vera non c’è. Ho evidenziato un fatto, ho battuto una pista. Non son certo d’averla trovata, la latitante. Ma sono persuaso che oggi, nella Basilica di San Pietro, si farà vedere. Insieme a papa Leone XIV, al Giubileo dei detenuti, dove accompagno 11 tra galeotti ed ex del carcere di Busto Arsizio, insieme ai volontari dell’associazione "La Valle di Ezechiele". E tra le colonne del Bernini e la volta di Michelangelo sono certo la vedremo. O forse no, come Gesù dice del Regno dei cieli: nessuno potrà dire ‘eccola qui o eccola là’. Sguscerà sempre da ogni tentativo d’afferrarla, come nei quattro Vangeli. Essa è viva, è la vita stessa. Non si può marmorizzarla, ingabbiarla, incatenarla. Dum spiro, spero: finché c’è vita, c’è speranza, diceva Cicerone. Sarà per questo che è assente dal testo dei Vangeli? Sarà per questo che Papa Francesco volle come ultimo Giubileo quello dei detenuti? Per dire che la Speranza né si inchiostra, né si ammanetta?
Don David Maria Riboldi è cappellano Casa Circondariale Busto Arsizio e fondatore de “La Valle di Ezechiele

© RIPRODUZIONE RISERVATA