Perché il caos appelli a Medicina è un fallimento collettivo
L’abolizione del test d’ingresso non sembra, al momento, aver ottenuto gli effetti desiderati. Cresce il malcontento degli studenti. Una generazione che «non è riconosciuta e messa nelle condizioni di generare valore»

Quella che doveva essere la riforma che, abolendo il numero chiuso, avrebbe allargato la platea degli studenti di Medicina e, quindi, aumentato in futuro il numero dei medici del Servizio sanitario nazionale, si sta invece rivelando un ostacolo troppo alto da superare per troppi candidati. Così, almeno, la percepiscono non pochi degli iscritti al cosiddetto “semestre filtro”, che il 20 novembre e il 10 dicembre hanno preso parte ai due appelli delle tre materie obbligatorie (biologia, chimica e fisica), da superare per poter proseguire. Proprio all’indomani del secondo appello, un nutrito gruppo di studenti ha duramente contestato la ministra dell’Università, Annamaria Bernini, accusando, in sostanza, il nuovo sistema di far loro «perdere un anno». La ministra ha chiesto di pazientare fino a Natale, quando «faremo la graduatoria e sulla base di quella vedremo chi entra subito, chi entro il 28 febbraio sconterà i suoi debiti d’esame e chi potrà scivolare sulle materie affini che sono già state indicate».
Il recente dibattito sollevato dall’esito del test per il semestre filtro di Medicina, con una quota spropositata di candidati incapaci di raggiungere il punteggio minimo, è la punta dell’iceberg di una questione generazionale più profonda. A rivelarlo non è solo l’esito del test in sé, ma anche la reazione di una parte del mondo accademico e adulto in generale, più incline a giudicare dall’alto ciò che i giovani dovrebbero essere e fare che a mettersi in discussione. Tutto ciò che rende le nuove generazioni diverse dalle aspettative consolidate viene meccanicamente interpretato come fragilità, superficialità o disimpegno, senza interrogarsi su quanto i contesti formativi e istituzionali siano davvero adeguati a far emergere e valorizzare il loro potenziale.
Cosa succede se un giovane che scalpita in panchina per avere un ruolo in una squadra composta da giocatori maturi viene fatto entrare in campo senza essere stato ben allenato, preparato tecnicamente e istruito sulla tattica? Semplicemente che non darà il meglio di sé, trasformando l’impreparazione in una profezia che si autoavvera e rafforzando l’idea che i giovani siano meno affidabili dei più esperti. Eppure la squadra continua a perdere, mentre la narrazione secondo cui l’ingresso dei giovani peggiorerebbe le cose risulta rassicurante per l’attuale classe dirigente matura. Non è un caso che nel mondo del lavoro ad aumentare sia soprattutto l’occupazione degli over 50. I giovani sono scomodi: richiedono lo sforzo di comprendere nuovi modi di pensare, di apprendere e di agire, nuove sensibilità e nuove aspettative, districandosi nell’intreccio tra fragilità e potenzialità. Ma se questo sforzo non viene compiuto – da genitori, educatori, comunicatori, decisori politici – l’esito è la demotivazione, la revisione al ribasso degli obiettivi professionali e di vita, oppure la scelta di andare altrove a dimostrare quanto valgono.
Tutto ciò è più grave in un Paese segnato da un debole ricambio generazionale, aggravato dalla crisi demografica. Non possiamo considerare i giovani nati in questo secolo inadatti a cogliere le sfide del proprio tempo. Al contrario, le nuove generazioni sono i migliori interpreti del cambiamento quando messe nelle condizioni di comprendere la complessità del mondo in cui vivono e di dotarsi degli strumenti necessari per diventarne attori attivi e trasformativi. Il cambiamento diventa miglioramento quando la novità che i giovani portano è riconosciuta e messa in condizione di generare valore. Quando questo non accade, il fallimento è collettivo: segnala un malfunzionamento nei processi di formazione del capitale umano e nella sua valorizzazione, a partire dalla capacità di entrare in sintonia con i modi in cui i giovani apprendono, si orientano e costruiscono aspettative realistiche rispetto al proprio essere e fare nel mondo, non solo del lavoro.
In un contesto molto più carente di sistemi esperti di orientamento e accompagnamento qualificato rispetto agli altri Paesi europei, i ragazzi italiani investono energie fisiche ed emotive in percorsi che non sempre corrispondono alle proprie potenzialità, forzando scelte subottimali che incidono sulla qualità della formazione e, poi, sulla collocazione occupazionale. Questa dinamica non solo rallenta l’ingresso nel mondo del lavoro, ma riduce la percezione di efficacia personale, uno dei fattori più rilevanti per motivazione, fiducia e autonomia progettuale. Il caso del test di Medicina non è un episodio isolato ma un’espressione coerente delle fragilità del sistema educativo e formativo italiano. La sfida non si vince riadattando i meccanismi di selezione, ma garantendo che ogni giovane disponga di preparazione, orientamento, esperienze e supporto per costruire percorsi capaci di far incontrare al rialzo le proprie attitudini con le esigenze del mondo del lavoro. Solo così le nuove generazioni potranno trasformarsi da portatrici di incertezza e frustrazione in protagoniste attive della società, a beneficio della collettività.
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