Il futuro dell'informazione e la posta in gioco dietro il riassetto di Gedi
La tecnologia e l'avvento dell'IA impongono nuove sfide per il giornalismo. E la cessione di Repubblica e La Stampa non è solo una trattativa finanziaria. In discussione c'è anche il pluralismo dell'informazione.

La libertà di stampa, insieme al pluralismo delle voci nel panorama dell’informazione, è forse la posta più preziosa in ballo nel caso politico-mediatico del giorno: la possibile vendita da parte del gruppo editoriale Gedi, proprietario dei quotidiani La Repubblica e La Stampa e di alcune radio nazionali, a un gruppo straniero. Al netto di voci, retroscena e indiscrezioni, la conferma delle trattative in corso fra la Exor (holding di casa Agnelli, guidata da John Elkann) e il colosso greco “Antenna” sta innescando reazioni a catena: dallo sciopero delle due redazioni, alle proteste dei sindacati, ai timori espressi da alcune forze politiche, fino alla convocazione dei vertici aziendali e dei comitati di redazione da parte del sottosegretario all’editoria. Senza nulla togliere ad altre vertenze del mondo del lavoro, non c’è dubbio che la vicenda rappresenti la cartina di tornasole di una sfida più ampia, che investe la salute stessa del pluralismo informativo nel nostro Paese. Quando si parla di stampa, vendere e comprare non è solo una pragmatica contabilità di perdite e di profitti. Perché solleva questioni cruciali, che vanno ben oltre i conti in rosso di due imprese editoriali.
L'ecosistema dell'informazione: mano del mercato o paracadute pubblico?
Da che esistono i giornali, chi controlla l’informazione può influenzare il modo in cui i cittadini vedono il mondo. Per questo, in una sana democrazia, il pluralismo delle voci è essenziale, perché racconta sì potentati industriali, politici ed economici, ma anche fatti e visioni “dal basso”, che concorrono a ispirare l’azione legislativa e il cammino della società. Il pluralismo non è solo concorrenza, è avere differenti sguardi: senza di esso, lo spettro delle domande possibili è meno ampio. E il giornalismo vive di domande. Certo, parliamo di un equilibrio fragile, in un mercato come il nostro in cui pochi grandi gruppi detengono quote significative. Ma proprio per questo, non è indifferente se una imponente holding dell’informazione come quella detenuta da Gedi, con un importante peso culturale, finisca per passare a un editore esterno al tessuto mediatico nazionale, senza chiare garanzie editoriali sul suo futuro. Chiaramente, c’è chi assicura che l’ingresso di investitori stranieri rimpolperà le casse del gruppo e dei due quotidiani. Ma al tempo stesso potrebbe spostare altrove il baricentro di due testate con un legame profondo col Paese. A voler andare al nocciolo della questione, il caso Gedi ripropone con forza il leit motiv di questo avvio di millennio: come si può garantire un ecosistema informativo sano in un contesto di trasformazioni tecnologiche, economiche e politiche? Il pendolo delle risposte oscilla fra i sostenitori della libertà di mercato e coloro che ritengono essenziale una tutela pubblica del pluralismo informativo, fra chi rimette il destino di ogni testata a quella “mano invisibile” evocata da Adam Smith e chi invece ritiene necessario un “paracadute” sotto forma di finanziamenti all’editoria (che in anni recenti si sono assottigliati, favorendo l’innesco di stati di crisi a catena nei quotidiani e nelle agenzie di stampa).
I fondi per l'editoria e le valutazioni del Governo
Attualmente, in manovra il Governo ha portato da 20 a 50 i milioni di euro per il settore editoriale, dopo un primo annuncio di tagli che aveva generato sconcerto fra editori e giornalisti. E ora, in questa vicenda, se lo riterrà, potrebbe giocare un ruolo cruciale. Per il momento ha convocato a Palazzo Chigi le parti interessate, ma potrebbe perfino decidere di valutare l’applicazione delle norme sul golden power, nel caso in cui lo ritenesse essenziale per tutelare asset strategici per il Paese. In ogni caso, finora non ha annunciato un intervento diretto, ma a partire dalla premier Giorgia Meloni, sta valutando il peso della partita.
I mutamenti tecnologici e la sfida di cambiare "pelle" e strumenti
La posta in palio, dicevamo, è alta. Quando testate del calibro di Repubblica e La Stampa non escono nelle edicole (che, per inciso, dopo la pandemia sono sempre meno, e senza nuove strategie rischiano di divenire antiquariato) la campana non suona solo per loro, ma per tutti, perché i cittadini potrebbero vedere sfoltirsi il ventaglio del racconto e delle interpretazioni dei fatti, indebolendo proprio quel pluralismo a cui accennavamo. E non ci si consoli, illudendosi che la sorte di alcune testate poi non possa toccare ad altre. Ormai da anni, tranne rare eccezioni, i quotidiani italiani navigano in a vista, fra i flutti di una crisi economica profonda, con copie in calo e margini risicati: basta guardare i dati delle vendite diffusi da Ads mensilmente, con tanti segni “meno” e pochissimi “più”. È il portato dei tempi, di un cambiamento nelle abitudini delle nuove generazioni, che si informano attraverso gli schermi dei loro smartphone e i “reel” dei canali social, costringendo i giornalisti a cambiare “pelle” e modalità di lavoro. A quei cambiamenti, non si può solo rispondere pensando ai bilanci e sfoltendo periodicamente gli organici delle redazioni, per abbassare il monte stipendi. Occorrono lungimiranza, inserimenti freschi, investimenti in tecnologie e in nuove competenze. Ed è su questo che Governo e Parlamento possono giocare una partita decisiva, con interventi che facilitino una transizione verso nuovi modelli di costruzione del giornalismo, che richiederanno – in questa era di rivoluzioni fast - un aggiornamento costante.
La qualità e il peso del lavoro precario
C’è poi il nodo della qualità: sul lavoro di diversi media, in questi anni travagliati, ha inciso e incide la precarietà di centinaia, anzi migliaia di giornalisti. Non molti sanno che in Italia, i giornalisti iscritti all'Ordine, come professionisti, pubblicisti o praticanti, sono oltre 100mila, ma fra loro solo 17.179 versano regolarmente contributi all'Inps in quanto lavoratori dipendenti. Quando intere redazioni di professionisti - come sta succedendo a Repubblica e La Stampa - lavorano quotidianamente sotto la spada di Damocle di tagli, accorpamenti o ristrutturazioni, la qualità dell’informazione rischia di essere la prima vittima e i lettori la seconda. Un giornalista che lavora con la paura di perdere il posto per via dell’instabilità proprietaria è meno sereno, mentre deve assolvere al difficile compito di offrire ogni giorno al pubblico notizie verificate e approfondite. Non solo: la vicenda Gedi si iscrive in un quadro generale che da anni non trova una nuova definizione: è infatti in corso da tempo una travagliata trattativa fra la Fieg (la federazione che rappresenta gli editori) e la Federazione nazionale della stampa (il sindacato dei giornalisti) per il rinnovo del contratto nazionale di categoria, scaduto ormai dal 2016 e per il rinnovo del quale i giornalisti hanno scioperato lo scorso 28 novembre, come molti lettori avranno notato.
La crisi della stampa negli Usa e la ricerca di nuovi modelli editoriali
Non è un’emergenza solo italiana, ovviamente. Basta guardare agli Usa, culla del giornalismo moderno, dove la crisi economica e l’avvento del digitale hanno già mietuto vittime fra i quotidiani: molti local newspapers sono falliti, lasciando intere aree del Paese senza copertura. Migliaia di giornalisti hanno perso il posto. E chi l’ha conservato si è trovato di fronte a scelte inevitabili: innalzare la qualità per fidelizzare i lettori, ma anche reinventarsi un mestiere, creando contenuti specifici per i social - pensiamo alla scelta del Washington Post di puntare su Tik Tok -. Il tutto con l’ansia da prestazione innescata dal clickbait, un "acchiappo" di visitatori con titoli a effetto (per articoli spesso vuoti di contenuto). L’imperativo del Digital first ha indotto testate storiche, come il New York Times, a lanciare le loro breaking news prima online, modificando gli scopi dell'edizione cartacea. Senza contare il nuovo moloch dell’Intelligenza artificiale, che rischia – se non governato – di divorare in pochi anni quanto resta della professione, e comunque già sta automatizzando processi redazionali e riducendo la necessità di assumere giornalisti. Visto in questa ottica, il caso Gedi offre un’occasione a tutti – decisori politici, editori e giornalisti, stakeholders, lettori e cittadini – per capire dove stiano navigando il giornalismo e l’informazione in Italia, e se possibile indirizzare per il meglio quella traversata. Verso quali sponde? Nuovi modelli editoriali che vedono l’informazione come un servizio pubblico, anche quando è di proprietà privata? Oppure verso una crescente finanziarizzazione del settore, che a quel punto risponderebbe solo a logiche di profitto? Il caso Gedi insomma è molto di più di una trattativa finanziaria. È una chiamata di attenzione per tutti, un momento cruciale per riflettere su chi custodisce la nostra informazione e su quali garanzie servano affinché possa restare libera, plurale e sostenibile economicamente.
Fari per tutti o lanterne per pochi? La difficile salvaguardia della libertà di stampa
Nel frattempo, in questo complesso guado, tocca ai giornalisti, direttori, capi e redattori, non solo a Repubblica e La Stampa, continuare a difendere la propria autonomia con la schiena dritta, non come un privilegio di categoria o, come ogni tanto qualcuno strepita, “di casta”, ma come garanzia per i cittadini, per le comunità, perché possano avere, nella pluralità di voci che arricchisce, un’informazione verificata e opinioni genuine, che li aiutino a decidere non solo chi votare, ma anche come impostare la propria esistenza. Pensate a un mondo in cui i giornali dovessero smettere di essere fari per tutti i naviganti per divenire invece lanterne nelle mani di pochi. Lo vorreste? La lezione del “padre” di Repubblica, Carlo De Benedetti, pur con molti personalismi e successive faide di famiglia, ci racconta di un’epoca in cui chi fondava un giornale lo faceva assumendosene ogni responsabilità: quella economica, certo, ma anche quella etica di offrire ai lettori un giornalismo schierato, sì, ma utile alla comunità. “La nostra libertà dipende dalla libertà di stampa, ed essa non può essere limitata senza che vada perduta", ammoniva un certo Thomas Jefferson, che fu il terzo presidente nella storia degli Stati Uniti. Oggi chi siede alla Casa Bianca ha invece spesso frizioni con i media che lo criticano. Pensiamoci. Perché un giornale può anche cambiare proprietario, con le dovute garanzie. Ma la libertà di informare, se la si perde, raramente ritorna indietro.
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