Al centro del Presepe l'annuncio che non siamo nati per morire
Le rivisitazioni alla luce delle sfide contemporanee sono possibili, tuttavia il messaggio che va trasmesso non può tradire il senso profondo dell’Incarnazione

Sono a Napoli in san Gregorio degli Armeni, la via dei presepi nota in tutto il mondo! Il cuore gioisce mentre gli occhi si riempiono di forme e colori, ammirando le infinite figure del Presepe Napoletano. Il più antico voleva che tutti i mesi dell’anno, raffigurati nei mestieri tipici di ogni stagione, si radunassero a rendere omaggio all’Eterno che entra nel tempo. Rappresentare insieme castagne e ciliegie, vendemmiatori accaldati e pezzentelle infreddolite dal gelo invernale era un modo semplice, e comprensibile a chiunque, di raccontare il destino eterno che ci attende. Oggi non avrebbe più senso: i bambini trovano nei supermercati castagne in agosto e ciliegie in dicembre. Cambiano gli usi e cambia il modo di raccontare il Mistero, tanto che il presepe napoletano si è arricchito di personaggi ispirati alla storia italiana e, soprattutto, napoletana. Sbucano così, mescolati tra i pastori: Totò; i protagonisti del teatro partenopeo: Eduardo de Filippo e la mitica Filomena Marturano; Giuseppe Moscati, il medico santo, e persino Sofia Loren. Ma non è solo fantasia napoletana quella di rendere evidente nell’oggi i misteri della fede mescolando talora sacro e profano! Fin dall’origine l’iconografia cristiana ha avvertito la necessità di rappresentare il Mistero hinc et nunc, qui ed ora. Attualizzare nell’oggi un Mistero celebrato come memoria, o addirittura memoriale, è consuetudine del sensus fidei del popolo cristiano. Sarebbe impossibile citare tutte le opere che hanno riletto alla luce della storia, contemporanea all’artista, il Natale o la Pasqua. Le icone orientali, fino a Duccio da Buoninsegna, diedero alla mangiatoia la forma del sepolcro; i bizantini trasformarono Cristo in un Imperatore in trono; Giotto siglò le sue opere con il passaggio della stella cometa nel cielo italiano; i pittori della Controriforma posero in primo piano l’agnello sacrificale per educare il popolo al rapporto fra Sacrificio Eucaristico e Incarnazione. E l’elenco potrebbe continuare fino ai nostri giorni, fino a Salvador Dalì che non esitò, nelle diverse versioni della Madonna di Port Lligat, a rileggere l’evento cristiano sullo sfondo dello scoppio della bomba atomica.

Il dibattito attuale fra Presepe tradizionale o Presepe ammodernato non ha un gran senso alla luce della plurimillenaria storia cristiana, il dilemma fra fissità e innovazione è antico quanto il mondo. Quello che conta in tali attualizzazioni è l’obiettivo che ci si è prefissati di raggiungere. L’arte, dall’impressionismo in poi, ha progressivamente e drammaticamente registrato la solitudine dell’uomo e la sua inesorabile caduta entro un individualismo autoreferenziale. Così anche le forme artistiche popolari hanno abbandonato la fede. La grande domanda che fece sorgere san Paolo VI: «La Chiesa ha abbandonato gli artisti o gli artisti hanno abbandonato la Chiesa?» è quanto mai attuale. La Chiesa ha bisogno dell’arte, le sue origini sono segnate da più di un secolo di lotta iconoclasta, con Santi, come il dimenticato san Giovanni Damasceno, che hanno rischiato la vita per la difesa delle Immagini. Forse oggi in taluni presepi, che tutto rappresentano fuorché il Cristo e la sua Incarnazione, si pecca di autoreferenzialità, dove l’obiettivo non è rivisitare un Mistero di fede con l’occhio contemporaneo, bensì è quello di sconcertare, di far colpo, più che rappresentare, qui ed ora, il Verbum Caro factum est. In tal senso mi piace ricordare una natività del 1515, veramente incredibile per il messaggio che lancia a noi contemporanei. L’opera, attribuita a Jan Joest di Kalkar, pittore tedesco naturalizzato olandese, ritrae San Giuseppe e La Vergine che adorano il Dio Bambino circondato dagli angeli. Due pastori si affacciano all’entrata della stalla, sorpresi dalla luce che emana quel Bimbo. E fin qui nulla di strano. Tuttavia, scrutando a fondo il volto di alcuni angeli e del pastore più giovane, non si tarda a scoprire che vi sono ritratti bambini affetti da sindrome di Down. Una sindrome non identificata a quel tempo, ma che, pur riconosciuta come anomalia, non veniva ostracizzata. Questi bambini non erano soppressi o occultati, bensì elevati al rango di angeli o di pastori dallo sguardo pieno di stupore. Anche oggi è possibile rivisitare il Presepe guardandolo con la lente delle sfide contemporanee e riconoscendo nei pastori gli scartati della nostra società, pur tuttavia il messaggio che va trasmesso non può tradire il senso profondo dell’Incarnazione: l’uomo, qualunque uomo è caro a Dio e Cristo è venuto ad annunciare che tutti siamo nati per non morire.
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