La prima dote del buon educatore: essere autorevole, non autoritario
di Marco Erba
L’autoritarismo può sembrare una soluzione, in realtà è una scorciatoia illusoria e fallimentare. La grande sfida è saper rendere ragione di ciò che si chiede

Qualche mese fa mi contattò un’insegnante di lettere di una scuola del Sud, chiedendomi se potessi partecipare a un incontro con l’autore con alcune classi della sua scuola. Avevano letto un mio romanzo; mi fece piacere, accettai di buon grado. Fu un incontro molto bello, partecipato, stimolante. Notai però un ragazzo che se ne stava nell’ultima fila, squadrandomi con aria indagatrice, come se stesse soppesando parola per parola ciò che dicevo. Non fece domande, non espresse opinioni, non intervenne in alcun modo. Terminato l’incontro, uscì subito dalla sala. Sul treno del ritorno verso Milano mi arrivò una nuova richiesta di messaggi su Instagram. La aprii e mi trovai di fronte a un profilo non identificabile: lettere, underscore, numeri, una foto di una persona incappucciata, di cui non si vedeva il volto. Lessi però l’anteprima del messaggio e mi convinsi che non era uno spam: era indirizzato proprio a me. Un messaggio diretto, brutale, ma che mi fece anche sorridere e che, nel finale, mi fece un gran piacere. Diceva così: «Caro Marco, sono un ragazzo che oggi ha partecipato all’incontro con te a scuola. Ero in ultima fila e alla fine dell’incontro sono uscito subito. Quando la prof ci ha obbligato a leggere il tuo libro, dicendo che saresti venuto da noi, ti ho subito cercato in rete. Ho visto alcuni tuoi video e mi sono detto: "Mi rifiuto categoricamente di leggere il romanzo scritto da uno sfigato simile, che parla con un fastidiosissimo accento del Nord". Poi però la prof ha detto che avrebbe fatto una verifica e che avrebbe dato un voto. Io ho cinque e mezzo in italiano e visto che siamo a fine anno scolastico non potevo permettermi un’insufficienza, così sono stato costretto, con grande fastidio, a recuperare il tuo romanzo e a leggerlo. Ci ho messo due giorni, mi è piaciuto tantissimo. Grazie per averlo scritto».
Le ultime due frasi, per fortuna, riscattavano il resto. Risposi a quel messaggio con gratitudine e ironia, quell’ironia che salva la vita e rende tutto più leggero. Lo ringraziai per il commento conclusivo, poi mi fermai a riflettere. Spesso si discute di quanto la lettura a scuola debba essere un piacere o un dovere: è giusto imporre dei romanzi da leggere e verificarne la lettura? Di certo quel ragazzo dal mio romanzo aveva portato a casa qualcosa di bello. Ripensai ai miei innumerevoli studenti che, di fronte a una mia proposta di lettura, si lamentavano. La loro prima domanda, immancabile, era: «Di quante pagine è?». Poi però capitava che apprezzassero l’opera, che ne discutessero, che si appassionassero. Ricordai in particolare un commento sui social di un allievo di quinta superiore, assolutamente ostile alla lettura, che aveva appena terminato un romanzo fiume di una notissima autrice italiana: «Ci credete? L’ho letto davvero! Ho letto seicento pagine! E mi è pure piaciuto, pazzesco!» Era stupito che la lettura potesse essere un’attività arricchente, magari pure un passatempo piacevole, anche se in parte faticoso. Era stato costretto a impegnarsi, ma ne era valsa la pena: per lui quella era stata una specie di illuminazione. Ne parlammo di persona: gli dissi che certo, leggere era più faticoso che, ad esempio, guardare video. Ma non è faticoso anche fare sport, o scalare una montagna? E non è bellissimo, gratificante? Fatica e piacere non sono opposti: possono stare insieme; lui, grazie a quel romanzo, lo aveva sperimentato.
Io credo che forzare alla lettura, in modo ragionevole e proporzionato, sia in una certa misura necessario. Come sia necessario, da insegnanti, utilizzare la propria autorità per spingere i nostri ragazzi a sperimentare cose nuove, difficili, ma potenzialmente gratificanti, arricchenti. Un po’ come un genitore che spinge un bambino ad assaggiare un cibo gustoso e salutare mai provato prima. La nostra autorità è fondamentale: può vincolare positivamente i nostri studenti, può spingerli a fare il primo passo per infrangere la loro indolenza, può aiutarli ad attivarsi, a mettersi in gioco. Può spingerli ad uscire dalle loro gabbie mentali per scoprire qualcosa di nuovo. L’autorità è fondamentale per accompagnare chi cresce nel cammino della libertà e della responsabilità. L’obiettivo finale di chi educa è farsi da parte: dopo aver accompagnato le persone che ci sono state affidate, dobbiamo lasciarle andare nella loro vita. Per fare questo, è necessario passare dall’essere guida all’essere consigliere. Una guida sta davanti, decide la strada. Un consigliere sta alle spalle: offre suggerimenti, dà consigli, ma lascia che sia l’altro a decidere. Per fare questo passaggio, è necessario che libertà e responsabilità siano state allenate. Più aumenta la responsabilità dei ragazzi, più io posso dare libertà, posso fare passi indietro.
L’autorità di un educatore è sana se mira alla libertà dell’altro e alla sua responsabilità. L’autorità è sana se interviene quando l’altro si sta facendo del male o non è ancora in grado di essere responsabile, di camminare da solo, ma sempre avendo presente che quell’intervenire è provvisorio: come una stampella, come le rotelle per chi impara ad andare in bicicletta, come una mano tenuta in un passaggio difficile di un’escursione. L’autorità è una forma di servizio ai ragazzi: se diventa oppressione, si trasforma in autoritarismo. E l’autoritarismo è una perversione. Ricordo un’epica litigata tra un collega e un allievo di una classe che avevamo in comune. Quel collega non spiegava quasi mai, in classe si limitava a leggere parti del libro di testo. Un giorno sottopose gli studenti a una verifica che aveva preparato alcuni anni prima a partire da un altro libro di testo della sua materia e che non aveva revisionato. La verifica conteneva domande su nozioni non presenti nel testo in adozione in quella classe. Gli studenti avevano protestato e il capoclasse, un ragazzo quasi maggiorenne, molto equilibrato, ma anche molto determinato, si era fatto portavoce della protesta. Il prof si era infuriato, si era messo a urlare: «Se io vi do una verifica, voi la fate e state zitti! Chiaro?» Il capoclasse aveva replicato: «No! Lei ci può chiedere tutto quello che ci ha spiegato e che c’è scritto sul nostro libro, non ci può chiedere ciò che non ci ha detto e che non è scritto da nessuna parte. Lei ci può chiedere ciò che dobbiamo sapere, non ciò che non possiamo sapere!». Il prof aveva perso le staffe definitivamente: era andato verso il capoclasse e, incombendo su di lui, aveva sbraitato: «Io comando e tu obbedisci! Io comando e tu obbedisci! Io comando e tu obbedisci!» E l’allievo, urlando a sua volta: «No! No! No!» Lascio a chi legge giudicare da che parte stesse maggiormente la ragione.
L’autoritarismo è la perversione dell’autorità. L’autoritarismo è una maschera che indossiamo per far valere il nostro ego. L’autoritarismo pone noi stessi al centro, la nostra (presunta) posizione privilegiata, il nostro potere, il nostro ruolo Oggi però i ruoli non sono più riconosciuti a prescindere, soprattutto dagli adolescenti. L’autorità non è più accettata senza discussione. Questo è certamente un problema, lo vediamo tutti i giorni. Ma forse questo problema è anche un’opportunità, perché può consentirci di chiederci su cosa basiamo la nostra autorità: su leggi che pretendiamo già scritte, su un potere che riteniamo ci venga in qualche modo dall’alto, o su una reale autorevolezza? Se l’autoritarismo è una maschera che crea distanza, l’autorevolezza si conquista solo nella relazione. Si costruisce solo se i ragazzi comprendono che quell’insegnante, o più in generale quella figura educativa, usa il suo potere per sfidarli a una bellezza, perché ci tiene a loro, perché gli vuole bene. Non c’è vera autorità al di fuori della relazione; non c’è duratura autorità che non si fondi sull’autorevolezza. Non ci sono leggi che tengano, se non ispirate al bene comune. Non ci sono regole che vengano rispettate sempre e a lungo, se chi è chiamato a rispettarle non è convinto della loro bontà per gli altri e per sé stesso. Di fronte alla devianza, l’autoritarismo può sembrare una soluzione, ma in realtà è una scorciatoia illusoria, fallimentare. Qualsiasi autorità deve essere rigorosa, a tratti inflessibile, ma deve anche accettare la sfida dell’autorevolezza, del rendere ragione di ciò che chiede; deve indicare un bene possibile, che spinga ad uscire dai propri steccati.
Marco Erba è insegnante e scrittore
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