La povertà non si cura (solo) con i sussidi
Piattaforme, sportelli e denaro non bastano: il vero aiuto che serve a chi ha bisogno è di accompagnamento. Cioè di angeli angeli sociali, che meriterebbero anche un albo

In Italia le politiche contro la povertà vivono un paradosso. Misure economiche, piattaforme digitali, Caf, sportelli comunali, centri per l’impiego, reti di Terzo settore: gli “ingredienti” non mancano nonostante difetti d’impostazione e limiti delle risorse finanziarie a disposizione. Ma non arrivano sempre a chi ne ha più bisogno. Una quota significativa di persone e famiglie fragili resta esclusa, non presenta domanda, non completa la procedura o si perde nei meandri burocratici. È il fenomeno del mancato take up, ben documentato dalle evidenze empiriche. Perché succede? Non certo per mancanza di informazione. Il vero punto debole è un altro, più profondo: la risorsa scarsa sono i “Samaritani” che si fanno prossimi, si prendono cura e costruiscono una relazione. Per accedere alle misure più importanti oggi è necessario orientarsi tra portali complessi, linguaggi amministrativi ostici, certificazioni, adempimenti digitali come SPID o CIE, documenti da recuperare e requisiti da verificare. Una persona anziana sola, un genitore in difficoltà, un migrante con scarsa alfabetizzazione digitale, un adulto con problemi abitativi o di salute mentale spesso non sono in grado di completare da soli questo percorso.
Gli ingredienti ci sono, ma manca una relazione di accompagnamento. Una figura capace di mettersi accanto alla persona fragile, comprenderne i bisogni, aiutarla a decifrare le opportunità, costruire con lei fiducia, motivazione, autostima. Non qualcuno che «fa la domanda al posto tuo», ma qualcuno che ti porta a farla rendendosi prossimo e prendendosi cura, che ti prende per mano per farti attraversare una complessità amministrativa altrimenti invalicabile. La relazione, in questo senso, non è solo uno strumento: è essa stessa parte della cura. È l’unica soluzione al caso singolo. Perché diventeremmo matti cercando di risolverlo solo burocratizzando il problema e proceduralizzando tutto, perché nessuna procedura può seguire ed entrare nei meandri e nelle esigenze delle singole vite umane. Non è un’intuizione romantica: è ciò che mostrano con chiarezza molte esperienze internazionali. La Banca Mondiale, studi dei Nobel dell’economia Banerjee e Duflo, e diversi programmi europei hanno evidenziato come l’accompagnamento relazionale sia un fattore decisivo per uscire dalla povertà, spesso più del trasferimento economico in sé. Senza qualcuno che aiuta a orientarsi, le misure rischiano di fallire proprio con i destinatari più vulnerabili. Il nostro paese sotto questo punto di vista è in difficoltà. Gli assistenti sociali fanno ciò che possono, ma hanno carichi insostenibili. I Caf svolgono un lavoro essenziale, ma non possono trasformarsi in tutor personali. Il Terzo settore ha una capacità straordinaria di intercettare situazioni di fragilità – dalle Caritas alle associazioni locali, fino alle parrocchie – ma viene coinvolto troppo spesso in modo episodico, per tamponare emergente e non in una logica organica di co-programmazione ed amministrazione condivisa. Per questo potrebbe aiutare un’idea semplice ma rivoluzionaria: creare una rete strutturata di “angeli sociali”, figure di accompagnamento capaci di essere il ponte tra le istituzioni e la vita reale delle persone fragili. Non supereroi, ma cittadini formati – volontari o operatori del Terzo settore – che svolgano un ruolo riconosciuto e valorizzato.
Come potrebbe funzionare? Un primo passo sarebbe istituire un Albo, simile a quello dei tutor per i minori non accompagnati. A questo si potrebbero affiancare incentivi economici leggeri, piccoli voucher o rimborsi orari per chi presta tempo qualificato all’accompagnamento. La valorizzazione degli angeli sociali non passa soltanto dal riconoscimento economico. Un altro strumento potente è la certificazione delle competenze relazionali e sociali acquisite attraverso l’accompagnamento. Nel mondo del lavoro di oggi, la capacità di lavorare in gruppo, gestire conflitti, ascoltare, motivare e costruire fiducia è considerata una soft skill decisiva. Riconoscere formalmente queste abilità – attraverso badge digitali, attestati, crediti di cittadinanza o percorsi brevi di validazione – darebbe dignità a un impegno spesso invisibile e offrirebbe alle persone che si prendono cura degli altri un valore spendibile nella vita professionale, evidenziando in questo modo come esiste un capitale umano che ritorna utile alla comunità e alle organizzazioni, e che rafforza la stessa persona che si mette a disposizione. Come ricorda la filosofa Jennifer Nedelsky, la vera domanda che dovremmo fare oggi quando c’incontriamo non è «che lavoro fai?», ma «di chi ti prendi cura?». È una prospettiva che ribalta la gerarchia dei valori: la cura non è un’attività ancillare, ma una forma di realizzazione personale e sociale, di risposta alla domanda profonda di senso. Gli angeli sociali incarnano proprio questo: non sono assistenti sociali – professionisti che devono gestire decine, talvolta centinaia di casi – e non sono “genitori affidatari” o “adottanti”. Sono persone ordinarie che decidono di prendersi cura in modo straordinario di qualcuno. Non agiscono da sportello, ma scelgono di farsi prossimi; non svolgono una funzione, ma creano una relazione. È questo che li rende preziosi: la loro forza non sta nel ruolo formale, ma nella scelta libera e responsabile di essere accanto a una persona, una famiglia, una storia. Perché nessun fascicolo digitale, nessun portale, nessuna procedura automatica potrà mai fare ciò che fa un essere umano che ti guarda, ti ascolta e ti dice: «Non sei solo, ti accompagno».
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