Il Presepe giusto? Permette di riconoscere che Dio nasce ancora, oggi

Ogni anno, all’inizio dell’Avvento, ritorna l’interrogativo su come rappresentare la Natività. Proponiamo un test, tra iconografia tradizionale e rivisitazioni moderne
December 13, 2025
Il Presepe giusto? Permette di riconoscere che Dio nasce ancora, oggi
Preparazione del Presepe in una famiglia/ SICILIANI
Un presepe senza la Sacra Famiglia? Impossibile. Ma il parroco di Santa Susanna a Dedham, diocesi di Boston, ha ritenuto che quel che sta accadendo con le retate di migranti senza documenti da parte degli agenti federali dell’Immigrazione potesse giustificare l’alterazione della Natività per far passare un messaggio forte e chiaro. E così per denunciare quello che molti ritengono un abuso ha realizzato un presepe dove Gesù, Maria e Giuseppe sono assenti perché evidentemente arrestati e deportati. È solo un nuovo episodio che conferma come – dalle statuine di celebrità proposte a San Gregorio Armeno alle sacre rappresentazioni più “creative” – il presepe sembra accendere la voglia di “rileggere” ciò che comunica, forse per la perenne attualità della sua scena, la potenza del messaggio che promana dalla ricostruzione di Betlemme, o l’idea stessa dell’incarnazione di Dio che parla a ogni oggi della storia. Ma tutti avvertiamo che c’è una soglia da non oltrepassare. Dove corra il confine fra una tradizione da rispettare e una riflessione che ci coinvolga più personalmente è tema che però interroga ciascuno di noi. Avvenire ha ospitato nell’edizione di sabato 13 dicembre tre interventi d’autore per aiutarci a riflettere: suor Gloria Riva, il poeta Davide Rondoni, e infine il teologo Marco Vergottini. Ecco il suo articolo.
Ogni anno, all’inizio dell’Avvento, nelle case e nelle parrocchie ritorna l’interrogativo di sempre: come si realizza un presepe “giusto”? Con l’iconografia tradizionale – la grotta, la mangiatoia, i pastori, il bue e l’asinello –, oppure affidandosi a rivisitazioni moderne che alcuni giudicano “creative” e altri “irriverenti”? Non è affatto semplice dare una risposta definitiva a tale questione, complessa e di non facile soluzione. Perché il presepe non è un soprammobile devozionale da tirare fuori un mese all’anno: è una teologia domestica, una piccola narrazione della fede cristiana affidata allo sguardo di grandi e piccini. E ogni narrazione, per restare viva, ha bisogno di una tradizione che custodisca il bene ricevuto in eredità e di un’immaginazione che sappia dischiude nuovi orizzonti. Se guardiamo alla storia, scopriamo che il presepe nacque come atto di creatività pastorale. Francesco d’Assisi nel 1223 volle “vedere con gli occhi del corpo” la povertà del Dio fattosi uomo. Il bambinello, la Madonna e i pastori non erano fatti di gesso, ma persone vive con un cuore pulsante e uno sguardo improntato a meraviglia. Il presepe francescano era un atto performativo, non museale. Non “rappresentava” la Natività: la rendeva presente e tutti vi prendevano parte.
La storia successiva – dai presepi napoletani ai diorami settecenteschi, fino alle natività latinoamericane scolpite nel legno – mostra che mai il presepe è stato uniforme o intoccabile. È un linguaggio sempre rivisitato e che cresce, non una formula immobile e stereotipata. Chi teme ogni variazione dimentica che la tradizione cristiana è stata sempre un intreccio sapiente di custodia e invenzione. Il Vangelo non cambia; le forme per annunciarlo sì. E proprio questa capacità di rigenerarsi ha reso il presepe uno dei segni più popolari della nostra fede. Viviamo in un tempo in cui il Natale rischia di trasformarsi in un’esperienza anestetizzata, una “zona franca” dello spirito fatta di emozioni tiepide e zuccherose. Il presepe, allora, rischia di diventare una cartolina sentimentale se non ritrova la sua forza originaria: deve saper raccontare la vicenda di un Dio che entra nella storia reale, con le sue ferite e le sue speranze. Ecco perché molte comunità – in Italia e nel mondo – hanno cominciato a inserire nel presepe luoghi e persone dell’oggi: migranti stremati su una barca di legno, senzatetto accovacciati sotto un portico, famiglie in attesa di un permesso di soggiorno, infermieri che vegliano nella notte, e – perché no – quel branco di “ultimi” che nelle nostre città è sempre più affollato. Non è una concessione all’ideologia, ma un atto di fedeltà evangelica: se il Figlio di Dio nasce ai margini, allora i margini non sono un’aggiunta posticcia, ma la grammatica del suo venire. Betlemme, per i cristiani, non è un luogo “neutrale”. È un luogo “teologico”: dice dove Dio sceglie di farsi trovare. La gente talora teme che queste attualizzazioni finiscano per “forzare” l’autenticità storica. Ma il presepe non corrisponde a un reportage storico o a un esercizio di archeologia religiosa. Neppure i Vangeli forniscono una descrizione dettagliata della nascita di Gesù. Ci consegnano invece un simbolo potente: Dio entra nella storia del mondo nel punto più fragile. Tradurre questo simbolo non significa sfigurare la storia, ma renderle giustizia. Mettere nel presepe i volti feriti del nostro tempo non altera Betlemme; la riapre, come si aprono le Scritture quando non vengono trattate non come un reperto, ma come parola viva. Certo, non tutto ciò che è nuovo è da giudicare positivamente. Alcuni presepi “creativi” sembrano più provocazioni estetiche che interpretazioni spirituali, si tramutano in operazioni kitsch, dozzinali e pacchiane. La questione non è l’originalità, ma la verità teologica come lingua dello spirituale: l’attualizzazione non deve mai oscurare il cuore della scena – vale a dire, la natività di Gesù, il Dio-con-noi. Forse la domanda vera non è “presepe tradizionale o presepe contemporaneo?”, ma: preferiamo un Dio addomesticato, adatto alle nostre nostalgie, oppure ci affidiamo a un Dio che continua a sorprenderci, nascendo là dove non ce lo aspetteremmo?
Betlemme non è mai stata un luogo “fermo” e rassicurante: è il punto in cui Dio si lascia trovare nel volto dell’altro. Solamente un presepe che osa dire questo – con mezzi semplici e forme nuove – rende un servizio al Vangelo. E forse, alla fine, è questa la domanda che dovrebbe guidare ogni scelta: il nostro presepe consente ai nostri occhi di riconoscere che Dio viene ancora, oggi, nella nostra storia? Per concludere si può dar spazio a un “test teologico”: quale tipo di presepe avrebbero potuto realizzare gli ultimi pontefici? A quali maestri dell’arte si sarebbero potuti ispirare? Giovanni XXIII aveva l’anima semplice di un parroco contadino (con la testa di un fine diplomatico!). Per lui il presepe doveva profumare di stalla vera. Lorenzo Lotto e Giotto sarebbero stati i suoi artisti ispiratori. Paolo VI, affascinato dell’arte contemporanea, aveva un gusto raffinatissimo e una passione per la bellezza come via al mistero; si sarebbe lasciato attrarre da artisti quali Henry Matisse e Georges Rouault, con musiche in sottofondo di Olivier Messiaen. Giovanni Paolo II aveva una visione cosmica dell’incarnazione: per lui il presepe era una sorta di “teatro del mondo”. Pittori a cui riferirsi? Michelangelo e Marc Chagall. Benedetto XVI, influenzato dalla cifra della “Gloria” di H.U. von Balthasar, avrebbe potuto far installare un Crocifisso alle spalle della mangiatoia. Il Beato Angelico e Andrej Rublev sarebbero stati i suoi fari artistici. Per papa Francesco, infine, Betlemme non era un “altrove” romantico, ma una periferia segnata dalle ferite della storia. Avrebbe optato per un “presepe vivente” come quello del Poverello di Assisi, ma stavolta con il bambinello posato su una coperta termica gialla (utilizzata per proteggere le vittime dei naufragi).

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