giovedì 27 aprile 2023
Molte organizzazioni provano a informare i consumatori sugli effetti negativi del fashion sulla salute degli animali. Aumenta anche l’uso di nuovi materiali davvero ecologici
Moda etica e formazione: «Così insegniamo a non indossare le mucche»
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Chi lavora molto anche sul Web per informare i consumatori su tutto quello che è moda etica, sostenibile e cruelty free e aiutare le micro e medie imprese italiane più sensibili a fare rete, è l’associazione non profit «Vesti la Natura», sorta come portale nel 2016. «Sveliamo ciò che si nasconde dietro alle etichette e alle certificazioni: un prodotto, ad esempio, può essere fatto con materie prime ecosostenibili ma realizzato in ambienti che non rispettano le norme, la sicurezza e i diritti dei lavoratori», osserva Ruggero Giavini, socio fondatore e globetrotter del tessile. «Ad oggi non esiste un reale certificato che difenda le certificazioni: pensiamo al famoso GOTS, che dovrebbe garantire l’origine biologica dei prodotti tessili ma che è stata contraffatta per anni in India. «Vesti la Natura» vuole creare un consumatore cosciente del ruolo che ha sul mercato, in grado di riconoscere che cosa sta dietro ad una scritta, che cosa indica precisamente un’etichetta: la certificazione OecoTex in un capo d’abbigliamento, per esempio, significa che quel prodotto è fatto con materie prime che rispettano l’ambiente ma non assicura che non sia stato confezionato da una bambina che non è potuta andare a scuola o che i produttori di quel cotone non si siano suicidati a causa delle coltivazioni di cotone Bt della Monsanto», prosegue Giavini.

«Noi non siamo contro tutte le lane: sosteniamo, anzi, l’utilizzo di quelle derivate dal pelo di animali che non hanno subito trattamenti cruenti (il cosiddetto Mulesing), come avallano i veterinari tramite la certificazione Mulesing Free. Sostenibile è la lana di Yak, la cui fibra viene ricavata dal vello caduto spontaneamente a terra del bue tibetano; insostenibile è, al contrario, la lana cashmere ricavata dal pelo della capra hircus, i cui pascoli stanno causando la distruzione delle praterie degli altopiani asiatici».

Su che cosa puntare allora? Se fino a ieri esistevano solo “alternative” plastiche realizzate con fibre acriliche e non biodegradabili, oggi il mercato si sta orientando verso i cosiddetti next gen materials, innovativi materiali a base di piante, scarti di frutta, sughero o tea Kombusha, di fibre riciclate ma anche prodotte dal micelio dei funghi o dai microbi. «Nonostante i consumatori, anche italiani, chiedano sempre di più prodotti di moda animal free, sul fronte dei nuovi materiali c’è molta strada da fare, vuoi perché il governo non ha ancora varato incentivi particolari per la ricerca, vuoi perché l’industria conciaria continua a non capire che se vuole sopravvivere deve investire seriamente in questo settore anziché insistere sulla presunta circolarità della sua economia (legata all’industria della carne e ai suoi scarti) e sull’idea di creare filiere di pelle animale più etiche», aggiunge Simone Pavesi della LAV.

Totalmente vegan e interamente made in Italy sono materiali come “Appleskin”, una finta pelle generata dagli scarti della mela, “Wineleather”, dagli acini d’uva, “Muskin”, dai funghi. Ecologica e circolare è poi la pelliccia Koba fur free, proposta per la prima volta dalla stilista inglese Stella Mc Cartney nel 2019: realizzata con ingredienti vegetali e con poliestere rigenerato che può a sua volta essere riciclato, la produzione di questa faux faur richiede il 30% di energia in meno di quanta ne serva per un indumento tradizionale e la percentuale di gas serra che produce è -63% di quella emessa dai materiali sintetici più diffusi.

Il “rispetto per la vita”, di tutto ciò che è vita che vuole vivere, come sosteneva Albert Schweitzer, lo si può anche imparare in classe. Laura Budriesi insegna al Dams di Bologna e Firenze ma negli ultimi tempi si è concentrata sui cosiddetti “critical animal studies” e sulle “performance animal studies” («una galassia di studi incentrata sulla dimensione performativa che permette di affrontare il punto di vista dell’animale e di renderlo centrale»). Di pratiche feroci nei loro confronti, di moda senza crudeltà, del rapporto uomo-animale, di rispetto dell’alterità parla regolarmente anche ai più giovani nell’ambito di progetti di educazione civica e culturale nelle scuole organizzati con il Miur, la LAV e altre associazioni animaliste. «Ricorrendo alla letteratura, all’attualità, invitandoli a scrivere slogan o storie, ad analizzare ciò che propone la moda, a teatralizzare una situazione che vede animali insieme con umani oppure animali sfruttati per farne abiti e scarpe, raccontando quanto tutto ciò rappresenti uno squilibrio per il mondo, cerchiamo di far nascere emozioni nei bambini e nei ragazzi, di creare empatia con gli animali e il loro triste destino. Agli studenti», continua Budriesi, «spieghiamo che nella moda non c’è più nulla della pratica sciamanica di indossare pelli di animale allo scopo di acquisirne la potenza, il valore, la forza, ma in essa esiste solo il corpo nudo dell’animale, un corpo quasi astratto, che per poter funzionare a livello commerciale deve diventare senza storia, deve cancellare completamente la sua origine di essere vivente». «Mi ispiro alla lezione della psicologa americana Melanie Joy – suo il saggio “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche” – per illustrare la dissonanza cognitiva che viviamo nei confronti di alcune specie: cani e gatti, ad esempio, sono considerati pet (anche se in Cina non è così) e, perciò, animali da coccolare e vezzeggiare; altre, invece, devono diventare la nostra fettina di prosciutto o il nostro cappotto. Con gli studenti delle università, approfondiamo soprattutto il significato del vestirsi di animali, la matrice sciamanica di questa pratica, il bisogno di uscire da sé per mettersi nella pelle di qualcun altro», continua Budriesi, «ne studiamo il ruolo nelle performances anti speciste (smart mobs), termine con cui indichiamo delle forme di lotta politica che utilizzano alcuni espedienti della teatralità per indirizzare l’attenzione dei passanti. E, ancora, ci soffermiamo sull’uso del costume animale nella moda, come fa ad esempio la fotografa canadese Jo-Anne McArthur, per riflettere sul fatto che nelle passerelle gli animali sono da sempre presenti ma, essendo morti, non li notiamo nemmeno».

2 - Fine La 1° puntata è stata pubblicata il 12/04

Errata corrige: diversamente da quanto riportato nella 1° puntata, si segnala che anche Prada e Moncler sono tra i brand del lusso che hanno scelto di essere fur-free.

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