mercoledì 4 giugno 2025
Secondo gli esperti, la riduzione del debito va accompagnata a una politica di investimenti per la crescita a lungo termine, anche con l’aumento di prestiti concessionali
Non solo fardello: trasformiamo il debito in finanza per lo sviluppo
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C’è chi, come la banca d’investimento JP Morgan, sottolinea che «una nuova ondata di default non può essere esclusa entro il prossimo anno». Chi, come Paolo Gentiloni, co-presidente del Gruppo di esperti Onu sul debito, evidenzia che «sempre più Paesi saranno obbligati a scegliere tra onorare i loro debiti e assicurarsi il loro futuro». E chi, come la nuova amministrazione Usa di Donald Trump, preme per annacquare le riforme del sistema finanziario mondiale, chiedendo che vengano eliminati i riferimenti a «clima», «sostenibilità » e «uguaglianza di genere».

Banca Mondiale elenca una sessantina di Paesi fragili in tutto il mondo come a rischio di crisi del debito, una lista che non include peraltro Stati che hanno avuto problemi più di recente, come Senegal, Colombia e Indonesia. Tra questi ultimi, anche l’Angola, Paese africano produttore di petrolio che si è appena visto tagliare le previsioni di crescita 2025 dal Fondo monetario internazionale dal 3 al 2,4%, a causa dell’impatto della riduzione del prezzo del greggio e della crescita dei tassi di interesse sui mercati globali. Quello dell’Angola rischia di essere un caso di scuola sulla crisi del debito e sull’esigenza di una riforma dell’architettura finanziaria internazionale, tema che sarà al centro, a fine giugno, della Quarta Conferenza Onu sul finanziamento dello sviluppo.

Come altre economie africane, le obbligazioni angolane in dollari hanno subito a inizio aprile un duro colpo durante le turbolenze di mercato seguite all'imposizione dei dazi commerciali statunitensi, ora in pausa fino a luglio. Le preoccupazioni sono aumentate quando JPMorgan ha richiesto al governo di Luanda un'ulteriore garanzia di 200 milioni di dollari per il suo finanziamento da 1 miliardo di dollari garantito dai bond angolani. Nell’Africa sub-sahariana, l'Angola è il secondo maggiore produttore di petrolio, che rappresenta il 95% delle esportazioni, contribuisce al 60% delle entrate governative e genera tre quarti di tutte le attività economiche del Paese. Con il prezzo attuale del greggio a 60 dollari al barile, rispetto ai 70 dollari previsti dal governo nel suo budget annuale, il governo di Luanda vede avvicinarsi come uno spettro il rimborso di 9,1 miliardi di dollari di debito estero del 2025, incluso un eurobond in scadenza a novembre. Più che probabile che il governo di Luanda dovrà rivolgersi al Fmi per un nuovo prestito. Le autorità locali sottolineano come l’indebitamento sia stato cruciale finora per costruire ospedali o distribuire acqua potabile, ma secondo l’organizzazione britannica Debt Justice la spesa in servizi sociali in Angola è diminuita del 55% dal 2015 a oggi proprio a causa dell’aumento del fardello del debito. Più spesa in interessi di traduce, come in tutte le economie vulnerabili, in meno risorse per istruzione o sanità.

Secondo il Fmi, l'iniziativa di rimuovere i sussidi sui carburanti lo scorso anno per alleviare la pressione sulle finanze locali non ha prodotto i risparmi sperati e non ha consentito investimenti in infrastrutture. L'Angola, come gran parte degli altri Paesi fragili, non dispone di un solido mercato del debito locale a cui rivolgersi quando le opzioni di finanziamento esterno diventano più limitate. Il Fmi già classifica il Paese come ad alto rischio, principalmente a causa dell'esposizione al cambio: circa l'80% del debito angolano è in valuta estera, compresi i prestiti cinesi garantiti dal petrolio. Una situazione, quella dell’Angola, paragonabile a quella di tanti Paesi del Sud del mondo.

Il rallentamento dell’economia globale, le tensioni sul commercio e gli aumentati rischi di recessione potrebbero trasformarsi in una tempesta perfetta per i Paesi e medio e basso reddito appesantiti dai debiti. Secondo diversi esperti, l’attuale approccio – oggi valutata soprattutto secondo i criteri del Quadro di sostenibilità del debito (Dsf ) di Fmi e Banca mondiale – necessita di una revisione in grado di generare i flussi di investimento necessari ad una crescita di lungo termine. Per gli analisti Kevin Gallagher, José Antonio Ocampo e Kunal Sen Helsinki, il Dsf «dovrebbe bilanciare la necessità di finanziamenti per lo sviluppo con la sostenibilità del debito, ma spesso promuove livelli subottimali di spesa pubblica e investimenti, contribuendo inavvertitamente a future difficoltà economiche nei Paesi in via di sviluppo. Inoltre, spesso non tiene conto dell'entità degli investimenti necessari ed è insufficientemente sensibile agli shock economici ed esterni». E ancora: «Il Dsf ha storicamente sopravvalutato il potenziale del consolidamento fiscale per stimolare la crescita economica, portando a persistenti errori di previsione e a rapporti debito/Pil superiori alle aspettative. Un difetto critico è la sua scarsa considerazione dei benefici a lungo termine degli investimenti finanziati dal debito, in particolare in settori come la transizione verde. Il quadro deve evolversi da uno strumento incentrato sulla riduzione del debito a tutti i costi a uno che incentivi gli investimenti progettati per guidare la crescita futura e la sostenibilità fiscale a lungo termine».

Gli investimenti, dunque, come leva per la sostenibilità del debito e la crescita futura, procedendo nel contempo a riforme più ampie. Le banche di sviluppo multilaterali e le istituzioni per la finanza dello sviluppo dovrebbero svolgere un ruolo centrale, garantendo maggiori prestiti concessionali soprattutto in tempi in cui si restringono i finanziamenti privati, l’economia globale rallenta e i prezzi delle commodity diminuiscono, come per il greggio nel caso dell’Angola. Secondo molti ana-listi, fondamentale è anche la creazione di un meccanismo istituzionale permanente per la ristrutturazione del debito sovrano, che proceda in maniera più spedita rispetto alle cornici attuali. Non più dunque solo il focus sulla riduzione del debito, ma un percorso verso uno sviluppo economico sostenibile di lungo termine, che consenta ai Paesi vulnerabili di contare su cambiamenti sistemici a partire (anche) da strumenti finanziari più equi e attenti alle comunità.

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