mercoledì 16 giugno 2021
Le ostriche a New York e i merluzzi nell’Atlantico: quando l’ecosistema collassa perché lo sfruttamento non è mai ottimale
Merluzzi lasciati ad essiccare nelle isole Lofoten, in Norvegia

Merluzzi lasciati ad essiccare nelle isole Lofoten, in Norvegia - CC Shutterstock

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I beni comuni sono beni tragici. Ciò dipende dal fatto che, analogamente al caso dei beni pubblici, incentivano comportamenti opportunistici, ma mentre nel caso dei beni pubblici ciò determina una mancata o insufficiente produzione del bene, nel caso dei commons, i free-riders sono coloro che consumano eccessivamente il bene, che viene, per questo, sovrasfruttato fino alla sua distruzione.

Nel 1860 i mercati del pesce di New York vendettero dodici milioni di ostriche. Vent’anni dopo, nel 1880 la raccolta di ostriche raggiunse l’impressionante cifra di settecento milioni. In città si potevano trovare ostriche ovunque, nei ristoranti, nei caffè, ad ogni angolo di strada, e tutti, sia ricchi che poveri, ne facevano grande uso. Quando ci si rese conto che lo sfruttamento di questa risorsa aveva raggiunto un limite di guardia e che le coltivazioni erano ormai praticamente distrutte era troppo tardi. L’amministrazione tentò di correre ai ripari, prima limitando la raccolta attraverso la concessione di autorizzazioni, poi vietando l’utilizzo di draghe e dei motori a vapore. Ma il processo di distruzione era, a questo punto, diventato irreversibile. Nel 1927 l’ultima coltivazione di ostriche di New York chiuse definitivamente.

La storia dei merluzzi dell’Atlantico del Nord non è molto differente. Tra gli anni ’50 e i ’70 la quantità di merluzzo pescato in quella parte dell’Oceano rimane pressoché costante, fino a quando, sul finire degli anni ’70 la domanda inizia a crescere così come le flotte e, quindi, la capacità di pesca. In questa fase si manifestano i primi segni di sovrasfruttamento: diventa più difficile trovare i merluzzi e la quantità pescata diminuisce. A questa riduzione del prodotto, si reagisce con maggiori investimenti e sforzi, navi-industrie gigantesche arrivano da tutto il mondo, Scozia, Germania, Russia, per pescare quelli che allora sembravano i pochi merluzzi rimasti. Proprio quando la risorsa diventa più scarsa e la si dovrebbe tutelare maggiormente, che la logica economica spinge ad aumentarne lo sfruttamento e, quindi, ad accelerarne la distruzione

Dalla fine degli anni ’70 e per i dieci anni successivi si registrerà un fortissimo incremento nella pesca. È a questo punto che l’ecosistema collassa, che la tragedia del bene comune si manifesta. I merluzzi diventano rarissimi e la produzione scende dalle 600 mila tonnellate del 1981 fino alle 180 mila, nel 1991. Si scoprirà in seguito che quell’anno vennero pescati la metà di tutti i merluzzi presenti in quelle acque. La soglia di guardia era ormai stata abbondantemente superata e non si poteva più tornare indietro. Perché rinunciare a raccogliere un’altra ostrica? Perché rinunciare a pescare ancora più merluzzi proprio ora che stanno diventando scarsi e quindi più preziosi?

«La rovina è la meta verso la quale gli uomini si precipitano, ciascuno perseguendo il proprio interesse » scrive Garrett Hardin nel suo The Tragedy of the Commons. È la logica tragica del freeriding. Una logica difficile da contrastare e regolamentare come dimostra il caso dell’halibut del Pacifico. Anche nel caso dell’halibut, come in quello del merluzzo, la pesca intensiva portò negli anni ’70 del secolo scorso ad una forte riduzione nella quantità di pesce. Per correre ai ripari, si iniziò a regolarmentare l’attività dei pescatori riducendo il periodo di pesca dai 125 giorni del 1975 fino ai 25 del 1980. I giorni di apertura alla pesca diventarono solo 2 nel 1994.

L’effetto di questa norma, che avrebbe dovuto proteggere la risorsa, fu invece quello di portare a una eccessiva concentrazione degli sforzi. Ciò che un tempo si poteva fare in quattro mesi, ora andava fatto in soli due giorni. Aumentarono gli incidenti sul lavoro, i pescatori feriti e persino le morti. L’accelerazione del lavoro portò inoltre al moltiplicarsi degli 'effetti collaterali'; aumentò vertiginosamente, infatti, la "pesca fantasma", la cattura, cioè, di altre specie senza mercato o l’uccisione di pesci a causa delle reti abbandonate in mare. Inoltre, la qualità del pesce presente sui mercati peggiorò. Essendo pescabile solo per due giorni all’anno, tutta la produzione andava immediatamente congelata per la lunga conservazione; divenne così, praticamente impossibile trovare halibut fresco in tutte le nazioni servite dalla flotta del Nord Pacifico. Si stimò che il numero ottimale di imbarcazioni destinate alla pesca era di nove imbarcazioni. La flottiglia in quegli anni, ne contava centoquaranta.



il problema dello sovra-sfruttamento e della conseguenza fragilità
è intrinseco alla natura stessa dei commons,
la loro "nonescludibilità" attira consumatori senza limite
e la "rivalità" fa il resto.


Questi esempi mostrano come il problema dello sovra-sfruttamento e della conseguenza fragilità sia intrinseco alla natura stessa dei commons, la loro "nonescludibilità" attira consumatori senza limite e la "rivalità" fa il resto. Ogni bene comune è quindi a rischio proprio a causa del disallineamento dei costi individuali e sociali connessi al loro consumo. I modelli teorici spiegano che in corrispondenza di una situazione di equilibrio si avrà un livello di sfruttamento che non è ottimale né da un punto di vista ecologico né da quello economico.

Perché, allora, si finisce comunque per arrivarci? La risposta è legata al fatto che ogni individuo, nel prendere la decisione se aumentare o diminuire il suo consumo tiene in considerazione solamente i costi individuali e non anche quelli che la sua scelta determina su tutti gli altri. Le stesse conclusioni sono valide, come ha in seguito dimostrato il premio Nobel Thomas Schelling, anche per l’inquinamento atmosferico, le infezioni virali, la produzione di rifiuti, l’inquinamento acustico, la congestione delle strade e a molti altri fenomeni di questo tipo.

Le difficoltà che oggi ci pone la gestione dei beni comuni ci trovano praticamente disarmati anche a causa del ritardo con il quale gli economisti hanno iniziato ad occuparsi del problema. Mentre la letteratura economica si accorge relativamente presto delle caratteristiche peculiari e dell’importanza dei beni pubblici, lo stesso non si può dire dei beni comuni. Il primo articolo accademico sui beni comuni, ed in particolare sui sistemi di irrigazione risale al 1911, anno in cui l’economista americana Katharine Coman pubblica un articolo intitolato Some unsettled questions of irrigation, sul primo numero dell’American Economic Review, quella che negli anni diventerà la rivista scientifica più prestigiosa tra tutte quelle che si occupano di tematiche economiche. Questo articolo, a parte la notevolissima eccezione di Elinor Ostrom, non avrà seguito. Il tema rimarrà sostanzialmente marginale nella letteratura economica, praticamente fino ai giorni nostri.

Anche per questo diventa sempre più pressante una riflessione pubblica sul tema dei beni comuni. Ce lo richiede innanzitutto, con grande urgenza, la situazione sanitaria e la necessità di regolamentare l’accesso della popolazione mondiale al vaccino.

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