domenica 17 settembre 2017
All'Ecofin di Tallin prende forma la proposta di tassare il fatturato dei giganti del web superando il concetto di residenza fiscale
Un magaziono di Amazon a Orleans in Francia

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L’Europa reclama una 'web tax' per tassare in modo equo i giganti dell’economia digitale, da Google a Facebook, da Amazon a Booking che sino ad oggi, complice una legislazione legata alla 'presenza fisica', riescono a fare affari pagando il minimo indispensabile nei nuovi paradisi fiscali dove hanno, strategicamente, fissato la la propria sede. Un meccanismo legale che di fatto genera un mancato gettito consistente. Insieme a Germania, Francia e Spagna, l’Italia è in prima fila nella richiesta (formalizzata ieri all’Ecofin di Tallin) di elaborare una strategia comune. Austria, Bulgaria, Grecia, Portogallo, Slovenia e Romania hanno aderito alla proposta e il prossimo 29 settembre si terrà un 'vertice digitale' sempre in Estonia per mettere a punto i dettagli. La questione, come ha detto il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan è «complessa». Ma irrimandabile. E le sensibilità sono diverse, si sono levate voci contrarie dai paesi coinvolti, così pure le variabili ma mettere in conto. «C’è una generale condivisione della necessità di introdurre una tassazione delle attività dell’economia digitale» ha spiegato Padoan aggiungendo però che «c’è una differenza di valutazione sull’opportunità di avere una misura transitoria ma immediata, o di aspettare invece che si lavori ad un accordo globale a livello Ocse».

Le perplessità però non mancano: con la web tax «dobbiamo stare molto attenti», soprattutto a «non tassare i prodotti », perché «altrimenti i cittadini Ue cercheranno altri prodotti, ad esempio dalla Cina» avverte il ministro danese dell’economia, Kristian Jensen. Ma cosa si intende di preciso con web tax? Giammarco Cottani, membro dello studio milanese Ludovici Piccone & Partners, con un passato all’Agenzia dell’entrate e all’Ocse (dove ha lavorato appunto su una prima proposta di tassa sul digitale) spiega che l’obiettivo è «quello di tassare i profitti che vengono dall’economia digitale in assenza di una presenza fisica dell’azienda, sovvertendo così una regola base del diritto tributario che è basata sulla residenza 'fiscale'». L’economia è diventata fluida ma le regole sono rimaste quelle del secolo scorso e le multinazionali del web fanno lo slalom per cercare di pagare il meno possibile. In gergo, si chiama «pianificazione fiscale aggressiva » spiega Cottani. In che modo? Fissando le proprie sedi nei paradisi fiscali europei come Lussemburgo, Olanda, Irlanda, Cipro e Malta. In Italia ad esempio un gigante come Google dovrebbe pagare quasi il doppio delle tasse rispetto a quelle che paga attualmente (il 24,5% contro il 12,5% dell’aliquota irlandese). Ma la rivoluzione a cui lavorano i ministri dell’Economia di Italia, Germania, Francia e Spagna: è ancora più ambiziosa: tassare il fatturato e non i redditi facendo dell’Europa un vero e proprio mercato comune.

«L’Italia in realtà nell’ultima manovra approvata prima dell’estate – sottolinea Cottani – ha introdotto una web tax provvisoria (nata dall’emendamento di Francesco Boccia del Pd, ndr) che di fatto prevede per le società che abbiano 50 milioni di fatturato in Italia (e almeno miliardo di cessioni di beni o servizi a livello mondiale) lo status di 'stabile organizzazione', una finzione giuridica che obbliga le imprese a fare i conti con il fisco o a dimostrare (un po’ come avveniva con gli studi di settore) di non avere interessi economici consistenti nel nostro paese. Altro nodo ancora irrisolto riguarda 'il perimetro' delle imprese coinvolte. «Non si capisce se si parla dei giganti del web o di tutte quelle aziende che effettuano vendite online, perché la differenza non è poco in un mondo in cui ormai l’ecommerce conquista fette di mercato consistenti ». Il rischio secondo Cottani è che la web tax finisca per aprire una guerra commerciale con gli Usa, in particolare adesso che alla guida del Paese c’è Donald Trump, paladino del protezionismo e deciso a tutelare gli interessi delle aziende americane. «Potrebbero aprirsi uno scontro, con ripercussioni sulle aziende italiane che esportano negli Usa» avverte Cottani. Altro effetto negativo, questa volta a carico dei consumatori, è un aumento dei prezzi come avvenuto con la nuova tassa su Airbnb. Fare la spesa su Amazon, insomma, potrebbe non essere più così conveniente.

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