mercoledì 22 febbraio 2017
La startup nel mirino dei tassisti in realtà non è ancora redditizia e forse non lo sarà mai
Anche Uber ha i suoi guai: perdite abissali e autisti in rivolta
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Non sarà consolante per i tassisti che lamentano di non arrivare più alla fine del mese, ma Uber nella sua storia breve e gloriosa non è mai stata capace di fare un solo dollaro di utile. Perdere denaro è normale per una startup tecnologica: tradizionalmente nella Silicon Valley prima si lavora sull’innovazione, quindi sulla creazione di un mercato e solo alla fine si trova il modo di guadagnarci. Soltanto che Uber sta diventando una startup un po’ troppo grossa e un po’ troppo in perdita. Secondo le stime di Dow Jones Venture Source l’azienda fondata nel 2009 a San Francisco da Travis Kalanick oggi vale 68 miliardi di dollari, cioè più dell’Eni, la maggiore società della Borsa italiana per capitalizzazione. Uber vale 68 miliardi perché è questa la valutazione che ne ha fatto il fondo sovrano dell’Arabia Saudita lo scorso giugno, quando ci ha puntato 3,5 miliardi di dollari portando a 12,9 miliardi il capitale complessivo raccolto da Kalanick in questi anni.

A Uber serve molto capitale perché brucia denaro come nessun altro al mondo. La società non è quotata, ma il suo direttore finanziario Gautam Gupta incontra ogni sei mesi gli investitori per fare il punto sulla situazione. Negli ultimi incontri ha ammesso che il gruppo avrebbe dovuto chiudere il 2016 con un rosso di 3 miliardi di dollari su 5,5 miliardi di fatturato, dopo i 2 miliardi persi nel 2015 e i 4 bruciati durante i primi sei anni di attività. Succede spesso, con le startup tecnologiche: il fascino di un’idea incredibilmente innovativa si scontra con la difficile realtà dell’economia reale. Dove al momento non è possibile nello stesso tempo offrire tariffe più basse rispetto ai tassisti, incassarci le commissioni dagli autisti (nell’ordine del 20-30% del prezzo pagato dai clienti) e avere anche abbastanza risorse per mantenere l’apparato tecnologico e continuare a svilupparlo. Difatti, com’era prevedibile, Uber per fare quadrare i conti sta cercando di risparmiare sugli autisti (e infatti ha scatenato le loro proteste in mezzo mondo, dall’India, alla Francia fino alla stessa San Francisco), sognando un futuro dove le auto che si guideranno da sole gli eviteranno la scocciatura di dovere utilizzare persone reali per guidare le macchine. Nel frattempo continua a raccogliere capitale e a bruciarlo per affermarsi come leader del mercato che ha avuto il merito di sapere creare. È una specie di dumping: si lavora in perdita, e quando i concorrenti, incapaci di sostenere perdite altrettanto forti, si ritireranno uno dopo l’altro, l’azienda di Kalanick potrà andare all’incasso. Non è detto che funzioni. L’Arabia Saudita in questi anni ha cercato di fare qualcosa del genere con il petrolio: ha inondato il mercato di greggio sottocosto per soffocare i pozzi dello shale oilamericano. Non ci è riuscita: dopo avere svuotato le sue riserve in valuta estera per più di 200 miliardi di dollari in due anni si è dovuta arrendere e ha trovato un accordo sul taglio della produzione con gli alleati del cartello dell’Opec. Ora Riad guarda a un futuro al di là del petrolio. E può portare la sua esperienza nel dumping ai nuovi soci di San Francisco.

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