sabato 16 gennaio 2021
In tutto il mondo almeno 1,3 miliardi di persone sono sovraqualificati o sottoqualificati. Una "tassa" pari al 10% del Pil mondiale. Italia 34esima nell'indice genrale
L'Italia è 34esima nell'indagine condotta da Bcg

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In tutto il mondo almeno 1,3 miliardi di persone sono sovraqualificati o sottoqualificati. Per i Paesi Ocse, si parla di un lavoratore su tre. È il problema dello skill gap, cioè l’assenza di risorse dotate di competenze per svolgere un determinato lavoro, e dello skill mismatch, minaccia più sottile in cui i lavoratori ci sono, ma a causa dell’evoluzione delle tecniche e dei mezzi le loro competenze non sono più adatte o compatibili. Il fenomeno, spesso trascurato da chi governa, è un segnale utile per valutare la salute di un’economia e soprattutto ha ricadute pesanti. L’ultimo studio di Bcg-Boston Consulting Group, dal titolo Alleviating the Heavy Toll of the Global Skills Mismatch, è tornato sul tema partendo dai dati del 2018 , quando lo skill mismatch si traduceva in 8mila miliardi di dollari di Pil mancato ogni anno, equivalenti al 6%. Per il 2020 si prevede di arrivare al 10%. E la percentuale, nel peggiore dei casi, può toccare l’11% del Pil fino al 2025, pari a 18mila miliardi di dollari.

La relazione con innovazione, produttività e sviluppo sostenibile è inversa: più aumenta lo skill mismatch e peggiore diventa la prestazione di un Paese. La pandemia ne ha aggravato l’impatto, specie per l’introduzione forzata di forme di lavoro nuove, ma attese da tempo (come quello da remoto), accelerando il processo sempre più necessario di digitalizzazione e di automazione. Se il mondo lavorativo cambia a velocità vertiginosa, la formazione non sembra tenere il passo. Spesso mancano le competenze, a volte sono invece superate. In ogni caso devono essere recuperate: il Paese che affronta il problema in modo efficace ne trae benefici in termini di Pil.

Per farlo, Bcg ha messo a punto il Future Skills Architect (Fsa), strumento che consente di analizzare le perfomance di un Paese calcolandone l’indice di “maturità” (Fsa Maturity Index) e fornendo un modello per la definizione degli specifici obiettivi nazionali insieme a una libreria di 50 soluzioni pronte per l’uso, policy di governo o tecniche di mercato da adottare.

L’Italia non ha una posizione brillante in classifica. L’indice generale Fsa la trova al 34esimo posto, sotto Cile e Malesia. La sua percentuale di skill mismatch ammonta al 38,2% (ma l’Olanda, al primo posto generale, è al 37,7%), con quasi dieci milioni di lavoratori male assortiti. In generale, non brilla per nessuno dei cosiddetti “mattoni” di riferimento. L’azione del governo per sviluppare nuove competenze è ferma a un punteggio di 44,2 su 100, appena al di sotto della media mondiale, 45. Meglio la Lifelong Employability, che ne ha poco più di 52 (su un punteggio medio di 43) e la Skill Liquidity, che misura l’ampiezza, anche geografica, delle domande di lavoro: punteggio di 62 su medi di 50 (questo registra anche una antica predisposizione al trasferimento, soprattutto da Sud a Nord).

Tuttavia, i punti di ritardo sono enormi. Per quanto riguarda il primo punto, la scuola zoppica: l’insegnamento del pensiero critico ha un punteggio di 43 punti (più basso del 50% dei Paesi al vertice). Per il secondo, cioè la formazione e impiegabilità continua, il livello di partecipazione ai Mooc (massive open online courses) in Italia è due volte inferiore a quello dei Paesi leader. Mentre per il terzo, la percentuale delle persone che lavoravano da remoto in epoca pre-Covid era ferma al 23%, mentre ai vertici del mercato arrivavano al 40%. Insomma, c’è molto da lavorare.

Guardando alla metodologia, l’indice (Fsa Maturity Index) si basa su 59 indicatori, comprende 75 Paesi raggruppati per reddito in cinque distinte categorie e costituiscono il 95% del Pil mondiale e il 79% della popolazione. Le policy sono distribuite in tre campi (i tre pilastri), cioè capacità, motivazioni e opportunità. E in corrispondenza di questi sono stati individuati sette “mattoni”, cioè la presenza di skill di base, l’implementazione di iniziative di lifelong employability (non si smette di studiare, imparare e aggiornarsi), insieme all’auto-realizzazione del lavoratore e un’analisi delle risorse umane che sia centrata proprio su bisogni, abilità e talenti della forza lavoro. A questo si aggiunge l’accessibilità delle offerte, la cosiddetta skill liquidity che favorisce l’accesso anche da aree diverse e lontane (attraverso, per esempio, il lavoro da remoto), e l’apertura all’inclusività. Sono, in sostanza, parametri di valutazione e settori su cui intervenire.

Fsa individua quindi le cause sottostanti allo skill mismatch, esamina la situazione corrente, aiuta a fare confronti e a individuare soluzioni intelligenti, magari copiando gli altri. I casi da guardare, cioè le best practice, sono tanti e – sorpresa – sono collegati alle innovazioni obbligate dal Covid. Come Hatch Exchange la piattaforma australiana nata per dare lavoretti part-time agli studenti universitari e diventata, con la pandemia, rete di collegamento tra aziende (più di 70) e disoccupati. O Darsak, uno strumento creato dal governo giordano per le lezioni scolastiche online (necessario in tempi di lockdown) che guarda in avanti e pensa già a un pubblico adulto, cioè lavoratori da formare o riformare.

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