mercoledì 22 gennaio 2014
​Londra strappa regole blande a Bruxelles e conquista gli investimenti dei francesi. In America gli idrocarburi non convenzionali hanno fatto crollare il prezzo dell’energia Nel Vecchio Continente i timori ambientali frenano i governi. Ma non quello di Cameron.
COMMENTA E CONDIVIDI
Oggi la Commissione europea pubblicherà un massiccio aggiornamento delle regole del pacchetto “Clima ed Energia”. Se le in­discrezioni circolate nelle ultime settimane saran­no confermate, le regole sulla ricerca di shale gas nel territorio europeo saranno molto blande. Sarebbe la vittoria di David Cameron, che negli ultimi mesi ha fatto forti pressioni su Bruxelles – e in particola­re su Janez Potocnik, lo slovacco commissario al­l’Ambiente, e Connie Hedegaard, la danese com­missario per il Clima – per evitare che la burocrazia europea bloccasse il suo piano: in breve, prevede di imitare gli Stati Uniti, cioè trivellare il nord del Re­gno Unito in cerca di gas e petrolio “non conven­zionali” capaci di fornire energia a prezzi ridotti. Il metano americano, scrive la Ue nello stesso docu­mento, oggi costa poco più di un terzo di quello eu­ropeo. Il primo ministro britannico è diventato il massimo ambasciatore in Europa dell’industria dello shale gas. Un settore che sta facendo la fortuna dell’A­merica e che sta ottenendo i primi risultati interes­santi anche in Asia, ma che in Europa è ancora po­co più che immobile. I legislatori sono preoccupa­ti per gli effetti ambientali delle tecniche per estrar­re il gas e il petrolio non convenzionali: il “fracking”, che consiste nel pompaggio di composti chimici ad alta pressione a 2-3 chilometri di profondità per rompere le rocce bituminose e liberare gli idrocar­buri, potrebbe inquinare il terreno e le falde acqui­fere. Su questo il dibattito scientifico è ancora aper­to. Per cautela la Francia ha bloccato ogni opera­zione. Cameron invece non vuole aspettare. Secondo le stime, nel Nord del Regno Unito riposa­no massi bituminosi che possono liberare 37 mi­liardi di metri cubi di idrocarburi non convenzionali. Il governo inglese calcola che da questo settore si possono ottenere investimenti per 3,7 miliardi di sterline all’anno e 74mila nuovi posti di lavoro. Si spiega così, ma anche con il progressivo declino dei pozzi dei mari del Nord, la scelta politica britanni­ca di favorire in tutti i modi le ricerche di nuovi i­drocarburi. Lo scorso anno il governo inglese ha ta­gliato le tasse sulle imprese del settore portandole a un livello inferiore a quello degli Stati Uniti. «Da­remo il massimo per lo shale gas » ha annunciato il 12 gennaio il premier britannico presentando la nuova strategia per rendere più accettabili le esplo­razioni per la popolazione. Il governo lascerà agli enti locali il 100% (cioè il doppio dell’attuale 50%) delle tasse sulle attività di ogni impianto di shale gas sul loro territorio. Si parla di circa 1,7 milioni di ster­line per impianto. Denaro che si aggiunge alle 100mila sterline per ogni esplorazione e all’1% dei ricavi degli impianti introdotti dal governo lo scor­so anno. Londra sta anche discutendo con le aziende la possibilità di pagare direttamente i cittadini che abitano nelle zone attorno alle aree di esplorazio­ne. Non è detto che questi ritorni economici — gli ambientalisti di Greenpeace le hanno definite “maz­zette” — bastino a superare lo scetticismo dei citta­dini britannici. Il governo inglese intanto incassa i primi risultati del suo piano. Sono già quaranta le esplorazioni in corso. In questi anni hanno investito sullo shale gas britannico gruppi inglesi come Centrica (ex British Gas) e diverse società americane. Adesso stanno ar­rivando i francesi. Lo scorso ottobre Gdf Suez ha scommesso 24 milioni di sterline sui progetti delle società americane nel Cheshire e nelle East Mid­lands. La settimana scorsa Total ha puntato 30 mi­lioni di euro, sempre con gli americani, nelle East Midlands. Per Londra, che rimane sempre con un piede in Europa e l’altro no, “rubare” gli investimenti a Parigi è una conquista non da poco. Total, in par­ticolare, è una di quelle (poche) società che aveva­no licenze per cercare lo shale gas in terra francese e che se le sono viste ritirare nell’ottobre del 2011, quando il governo Sarkozy, preoccupato per gli ef­fetti sull’ambiente, ha imposto una moratoria sulle ricerche (confermata dalla Corte costituzionale l’au­tunno scorso). Vinta la battaglia sulle regole europee, ora Londra incassa come 'bottino' gli investimenti dei grandi gruppi degli altri Stati della zona euro. Dopo i francesi potrebbero arrivare gli italiani. Pao­lo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni, ha ri­petuto spesso che spera di riuscire a ottenere risul­tati importanti nella ricerca di shale gas in Europa. Ha puntato sulla Polonia ma è andata male: come le altre majors che hanno creduto alla grande pro­messa del metano polacco, l’Eni ha cercato molto ma ha trovato poco, tanto che sta lasciando scade­re le licenze. Così il Cane a sei zampe tiene d’occhio il Regno Unito: è pronto a gettarsi nel Nord britan­nico, se sentirà l’odore allettante del nuovo gas.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: