sabato 28 febbraio 2009
Aumentano nel mondo gli over 65, e l’Italia è ai primi posti tra i Paesi con il maggiore tasso di anzianità. Come cambierà il mondo del lavoro? Quali interventi adottare a livello pensionistico, assistenziale e sanitario? E come sarà la nuova mappa dei consumi? Viaggio­inchiesta in un mondo che sta modificando stili di vita e politiche sociali.
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Il mondo sta invecchiando. Nel 2050 una persona su sei avrà più di 65 anni e vi saranno 70 pensio­nati ogni 100 lavoratori. Numeri da ca­pogiro, per un’economia e una politi­ca che su questo problematico terre­no si stanno muovendo senza la ne­cessaria lungimiranza, considerando il costante allungamento della vita me­dia, la diminuzione del tasso di nata­lità e l’affacciarsi annunciato della ge­nerazione del baby-boom alla soglia dei 65 anni. Ma il cambiamento è in at­to, e secondo gli analisti servono mi­sure urgenti. L’ultimo monito arriva da una ricerca condotta da Nomura, banca d’inve­stimento globale, intitolata «The bu­siness af ageing»: come dire, a chi an­cora non l’avesse capito, che sull’età sempre più avanzata della popolazio­ne bisogna iniziare a pensare in ter­mini pragmatici. A partire dalla revi­sione delle politiche pensionistiche: nei prossimi anni diventerà improro­gabile invertire la tendenza al pre­pensionamento che per decenni ha caratterizzato il mercato del lavoro di molte economie occidentali. Lo stu­dio di Nomura parla chiaro: in base ai dati relativi ai Paesi Ocse, in mancan- za di modifiche drastiche agli attuali schemi pensionistici nel 2050 il rap­porto tra forza lavoro a riposo e forza lavoro attiva potrebbe superare il 70% rispetto al 38% registrato nel 2000, mentre in Italia questo dato potrebbe essere addirittura superiore al 110%. Senza contare che, in un quadro simi­le, il rapporto tra pensionati e lavora­tori finirà col gravare significativa­mente sull’entità delle pensioni stes­se, nonché sui sistemi sanitari pubbli­ci, già provati dai maggiori costi che u­na società più anziana necessaria­mente imporrà. Che fare? Innanzitutto, incoraggiare la popolazione a rimanere attiva oltre gli attuali limiti d’età: una proiezione del­la ricerca dimostra che, in assenza di incentivi al ritiro anticipato dalla vita lavorativa e con una più alta età pen­sionabile, il numero di persone in at­tività – rapportate al totale della po­polazione – crescerebbe sostanzial­mente, in pratica annullando i pro­blemi dovuti all’invecchiamento. E poi promuovendo politiche tese a incen­tivare la partecipazione al lavoro del­le donne e supportando la natalità e l’immigrazione. Tutte misure che nel nostro Paese sono già invocate da tem­po: «I nostri dati collimano perfetta­mente con quelli della ricerca di No­mura – spiega il segretario generale della Fnp- Cisl, Antonio Uda –. L’in­vecchiamento della nostra società ri­chiede un intervento immediato del governo proprio sulla riforma delle pensioni: rimanere fermi al limite at­tuale dei 65 anni è del tutto inadegua­to. In questo senso si è mosso già be­ne il governo con l’abolizione del di­vieto di cumulo, in vigore dal primo gennaio: ciò significa che un pensio­nato di anzianità privo dei requisiti ne­cessari, e che arrotonda il proprio red­dito con un’attività lavorativa, si può o­ra liberare di ogni trattenuta». E non basta ancora: «Deve anche cadere la pratica per cui, per ragioni di risparmio sui bilanci, le aziende continuano ad adottare la logica del prepensiona­mento, pensando di poter rimpiazza­re determinate figure professionali con giovani, per giunta precari. È la pro­duttività stessa delle aziende che vie­ne messa in crisi da questa tendenza». Ma se ad invecchiare è il mondo del la­voro, specularmente lo è anche la so­cietà dei consumi: gli anziani stanno diventando il target con cui le aziende devono sempre più relazionarsi, in fa­se sia produttiva sia pubblicitaria, e questo tenendone presente le caratte­ristiche peculiari, spesso diversificate. Se è vero infatti, come sottolinea la ri­cerca di Nomura, che gli ultrasessan­tacinquenni sono meno propensi al ri­sparmio degli individui di mezza età (secondo lo studio i giovani fino ai 35 anni e gli anziani sopra i 65 dedicano ai consumi la parte maggiore dei loro introiti) e che nel 2011 ad affacciarsi al­la soglia della pensione sarà la gene­razione dei figli del boom economico (con un tenore di vita tendenzialmen­te alto), l’altro lato della medaglia è quello di pensioni sempre più inade­guate rispetto al costo della vita. «In I­talia 8 milioni di pensionati vivono con meno di 720 euro al mese, 11 milioni con meno di 1200 – spiega ancora U­da –. Sono dati drammatici, che im­pongono anche un ripensamento del­la società dei consumi. Penso in par­ticolare al settore sanitario e farma­ceutico, dove quantità e qualità del-­l’offerta risultano sempre più ridotte, a discapito dei principali fruitori di questi servizi, che sono proprio gli an­ziani. E penso più in generale all’of­ferta di beni essenziali, primari: è in questi campi che l’anziano esercita maggiormente la sua domanda, non certo in quello dei beni sofisticati o di nicchia». Le aziende, tuttavia, si dimostrano an­cora poco preparate – o poco interes­sate? – ad affrontare il fenomeno. Col rischio di non cogliere un’occasione preziosa nell’attuale crisi economica: quella di intercettare e soddisfare una parte cospicua della domanda interna del Paese, al momento dimenticata e – volente o nolente – sopita.
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