martedì 14 marzo 2017
Per Richard Baldwin siamo entrati in una nuova fase del commercio globale, in cui la robotica e la telepresenza rendono superata la battaglia tra Paesi per la conquista dei posti di lavoro.
Alla fiera di robotica di Pechino una hostess mostra le capacità di Baxter, robot industriale dell'americana Rethink Robotics (Ansa)

Alla fiera di robotica di Pechino una hostess mostra le capacità di Baxter, robot industriale dell'americana Rethink Robotics (Ansa)

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Mentre i governi occidentali iniziano a fare i conti in ritardo con gli effetti collaterali della globalizzazione, il sistema economico internazionale sta di nuovo cambiando forma, con il risultato che i rimedi ai problemi di oggi già domani saranno obsoleti. Parola di Richard Baldwin, economista del Graduate Institute di Ginevra e autore di «The Great Convergence», uno dei migliori libri di economia del 2016, secondo il Financial Times.

Le due fasi della globalizzazione

La "grande convergenza" è quella avvenuta tra la ricchezza dei Paesi ricchi e quella dei Paesi poveri negli ultimi trent’anni, dopo che per più di un secolo e mezzo, nei decenni della "grande divergenza" le nazioni del G7 avevano conquistato una fetta sempre maggiore del Pil globale. In sintesi, nella teoria di Baldwin, ci sono state due grandi fasi della globalizzazione. Nella prima, iniziata attorno al 1820, l’invenzione del treno a vapore ha abbattuto i costi del trasporto delle merci e combinata con la rivoluzione industriale ha permesso alle economie occidentali di crescere poderosamente creando distretti industriali capaci di produrre ed esportare su larga scala. Nella seconda fase, dal 1990 in poi, lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione ha abbattuto i costi di trasporto delle idee, permettendo a quelle stesse aziende di controllare a distanza la produzione, e quindi trasferire alcune fasi del processo produttivo nei Paesi più poveri, risparmiando sulle spese. Così le competenze sviluppate nei Paesi ricchi hanno generato lavoro e crescita nei Paesi più poveri e le economie emergenti hanno recuperato quote di Pil globale rispetto alle nazioni del G7.


Ci hanno perso i lavoratori dei Paesi più ricchi, che si sono trovati a dovere competere direttamente con i lavoratori dei Paesi emergenti. «La vecchia globalizzazione riguardava prodotti finiti che varcavano i confini, era una competizione tra settori industriali di Paesi diversi. Nella nuova globalizzazione non è semplicemente un settore ad essere sfidato dalla concorrenza straniera, ma è una singola fase della produzione, che infatti viene spostata all’estero. A varcare il confine è il know how, non il prodotto» spiega Baldwin, ieri a Milano per partecipare a un incontro all’Università Bocconi sulla globalizzazione. Gli effetti psicologici e pratici di questa situazione sono politicamente difficili da gestire: «La nuova globalizzazione è improvvisa, imprevedibile, incontrollabile. Colpisce a livello individuale: tutti sentono che il proprio settore è a rischio, ma visto che si ragiona per fasi produttive nessuno sa chi sarà il prossimo a perdere il suo lavoro e perché. Questo spiega molte delle ansie di questi anni».

Troppo tardi per il protezionismo

Davanti a queste paure, la risposta protezionista à la Donald Trump, secondo Baldwin, è destinata al fallimento. Costringere le aziende a riportare in patria le fabbriche non basterà a restituire ai perdenti della globalizzazione i loro posti di lavoro. «Da anni le aziende americane non costruiscono prodotti in America, la loro forza è una competenza straordinaria nell’organizzare la produzione: la progettazione, il marketing, la logistica. Se metti barriere tariffarie rendi solo gli Stati Uniti un luogo dove produrre è più costoso. Quindi le aziende terranno in patria solo la produzione destinata al mercato interno e sposteranno all’estero tutte le produzioni per i mercati asiatici ed europei». Solo che nelle fabbriche che si apriranno in America c’è più lavoro per i robot che per gli operai. È la prossima fase della globalizzazione, che ha come primo protagonista il formidabile sviluppo della robotica e dell’intelligenza artificiale: l’epoca dei robot è già iniziata, le macchine autonome e i computer sanno già svolgere centinaia di mestieri a basso di livello di specializzazione, dai trasporti alla contabilità, fino alle risorse umane.

Nello stesso tempo l’evoluzione delle tecnologie di telepresenza, dalle videoconferenza al controllo a distanza di un macchinario, ha abbattuto un altro argine alla globalizzazione dei mercati, il costo dell’incontro "faccia a faccia". I lavoratori dei call center albanesi che competono con quelli italiani sono la versione più rozza di questa nuova concorrenza: già avviene che medici facciano operazioni su pazienti a centinaia di chilometri di distanza comandando robot-chirurghi, presentandosi come dei "lavoratori migranti virtuali". «Se hai delle capacità e puoi applicarle da remoto, allora sarai sul mercato ovunque» promette Baldwin.

In questa evoluzione rapidissima i governi si troveranno sempre più a gestire una situazione inedita, quella in cui le macchine faranno il grosso del lavoro "di routine", i prezzi continueranno a scendere e le persone avranno un sacco di tempo a disposizione. «Il reddito base universale mi sembra l’unica soluzione realistica per dare alle persone potere di acquisto in un mondo a minore intensità lavorativa – spiega l’economista –. Penso a un reddito che permetta alle persone di fare con serenità le loro scelte professionali e famigliari. Un po’ come stanno sperimentando in Finlandia». Non a caso i Paesi scandinavi sono anche quelli che hanno meglio gestito, con molta flessibilità e un welfare lavorativo pensato per proteggere le persone invece che i loro posti di lavoro, il passaggio della seconda fase della globalizzazione. È una ricetta che vale per tutti? Baldwin ammette di dubitarne: «Serve tempo per un passaggio simile, e lungimiranza politica. Temo che arriveranno invece reazioni distruttive, risposte luddiste contro la tecnologia, qualcosa di simile a quello che comunismo e fascismo hanno rappresentato rispetto alla rivoluzione industriale. Non sono ottimista ».

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