venerdì 4 maggio 2018
Luca Santini, presidente dell'associazione Bin (Basic income network): costerebbe 26 miliardi
Luca Santini, presidente del Basic income network

Luca Santini, presidente del Basic income network

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Distribuire o produrre? Reddito di base o servizi? É partito da questo dilemma il dibattito lanciato ieri da Francesco Gesualdi sulle pagine di Avvenire su quale sia la strada che lo Stato deve imboccare per garantire ai cittadini il soddisfacimento dei bisogni fondamentali. Deve limitarsi a fare da collettore e distributore della ricchezza prodotta per assicurare a tutti una quantità minima di soldi (il reddito di base che è cosa diversa dal reddito d’inclusione e dal reddito di cittadinanza proposto dal Movimento Cinque stelle proprio perché rivolto a tutti in maniera indifferenziata, è, appunto, universale) oppure deve produrre servizi adeguati e gratuiti non solo sui fronti come la scuola e la sanità, ma individuando anche altri campi di intervento in linea con i tempi? In Finlandia duemila disoccupati sono stati scelti a caso per una sperimentazione: ricevono un assegno di 560 euro esentasse ogni mese, anche nel caso in cui dovessero trovare un lavoro. L’obiettivo dei ricercatori era capire che effetto avesse questo reddito di base sul benessere dei cittadini e sul loro atteggiamento verso la ricerca di un impiego. Il governo però ha sospeso il test, annunciando altri esperimenti di welfare innovativo. In Italia una misura universalistica come il reddito di base costerebbe 480 miliardi di euro l’anno. Una follia. Ma soprattutto, secondo Francesco Gesualdi, non risolverebbe i problemi reali. Mentre ridisdegnare la mappa dei servizi gratuiti potrebbe avere benefici più vasti. Ad esempio investendo sulla tutela dell’ambiente ed ipotizzando, sul modello tedesco, mezzi pubblici gratuiti a partire dalle grandi città o servizi di accompagnamento alla prima infanzia come gli asili nido.

«Anche la sanità ha un costo considerevole per lo Stato, ma non ci poniamo il problema di quanto sia ingente l’ammontare perché permette a milioni di cittadini di non morire per malattie assolutamente curabili. Ecco, un approccio adeguato per valutare l’idea di un reddito minimo garantito non deve partire dalla spesa, ma dai benefici che può creare nella società». Luca Santini, presidente dell’associazione di scopo Bin Italia (Basic income network) è stato uno dei primi a caldeggiare una misura di sostegno a chi è in difficoltà ed invita a discutere dell’argomento a cominciare dalle opportunità. Nel 2012 Santini si attivò assieme ad altre realtà associative per lanciare una proposta di legge di iniziativa popolare volta a varare una misura destinata a poveri, lavoratori sottopagati e precari. E pochi mesi fa è uscito il libro, scritto assieme a Sandro Gobetti, «Reddito di base, tutto il mondo ne parla», in cui si analizzano le 'buone pratiche' messe in campo in altre aree del pianeta.

Che cosa prevede il 'vostro' reddito minimo garantito?

Non è un reddito universale, ma è rivolto a chi si trova al di sotto di una determinata soglia, per esempio il 60% del reddito mediano, parametro spesso preso come riferimento dalle istituzioni europee. Abbiamo immaginato un assegno di 600 euro al mese, vincolato anche a una valutazione del patrimonio, senza una durata prestabilita (il termine è il momento della cessazione dello status di povertà) e coordinato a servizi di welfare territoriali con convergenze tra enti locali in modo da uniformarne i criteri d’accesso.

Quanti sarebbero i beneficiari in Italia? Una misura del genere non rischia di costare una follia?
Trattandosi di una proposta di legge popolare e senza un marchio politico non abbiamo indicato numeri certi. In base ai calcoli dell’Istat dovrebbe essere necessario un finanziamento di circa 25-26 miliardi di euro.

Sembra una stima al ribasso per una misura ancora più consistente del reddito di cittadinanza avanzato dal M5s, per cui Confindustria ha calcolato spese (a volte 'sprechi') per circa 30 miliardi...
Anche se costasse 30 miliardi di euro il reddito minimo garantito non si tratterebbe di una somma da porre sul piano dell’irrealtà. Il bonus degli 80 euro costa quasi 10 miliardi l’anno. E le possibili fonti di finanziamento sono svariate, come una tassa di scopo sulle transazioni finanziarie.

Un sostegno del genere non rischia di favorire l’assistenzialismo, di finire in mano pure a chi non è povero o di agevolare il lavoro nero?
Nei Paesi in cui sono presenti misure simili la popolazione risulta particolarmente attiva. Sulla selezione crediamo che, grazie alla tecnologia, abbiamo sistemi in grado di ridurre al minimo i rischi di irregolarità. Sul lavoro nero, in realtà, può accadere l’opposto: sapendo che c’è una base su cui contare un cittadino è in condizioni migliori per rifiutare proposte illegali o non regolari.

Che cosa contestate rispettivamente del Rei e della proposta del M5s?

Per il Rei, oltre al budget insufficiente a detta degli stessi proponenti, siamo critici sull’architettura e su una platea di beneficiari limitata, che esclude i precari. Sul reddito di cittadinanza riteniamo sbagliata la narrazione di alcuni esponenti M5s che si affrettano a condizionare il sussidio a tante ore di volontariato o vari servizi da svolgere. Contestiamo pure il tetto massimo di 3 proposte generiche di lavoro rifiutabili, senza specificare se si tratti o meno di opportunità occupazionali in linea con il percorso formativo del soggetto. Mentre crediamo che il criterio della 'congruità' sia un punto chiave per la valutazione di una proposta.

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