sabato 4 maggio 2019
Uno studio della Dale Carnegie Training invita all’ottimismo contro le profezie di chi vede la fine dell’occupazione umana con lo sviluppo dell’automazione
Lavorare meglio coi robot
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Nonostante i robot, continueremo a lavorare. Probabilmente, grazie ad essi, addirittura meglio. Occorre 'solo' (e non è poca cosa) un po’ di fiducia. Lo dice un’indagine su un campione di 3.568 soggetti di 11 Paesi, tra cui il nostro, realizzata da Dale Carnegie Training, società fondata da uno dei padri della formazione moderna, Dale Carnegie (suo il best seller Come trattare gli altri e farseli amici): lo stesso che, già agli inizi del secolo scorso, parlò di soft skill, ovvero di quelle inclinazioni squisitamente umane, assai poco replicabili, che proprio in epoca di intelligenza artificiale e robotica tornano prepotentemente alla ribalda.

Mentre tanto, forse troppo, si parla, e stra-parla, di AI e Machine Learning, sotto il cielo restano grandi i nuvoloni di confusione e scetticismo: e fare chiarezza spetta alle governance, che di generare, distribuire e valorizzare il lavoro si occupano. Non basteranno leadership esperte e competenti nelle valutazioni tecniche, ma inclini alla conoscenza delle dinamiche umane, abili nel favorire le relazioni positive, pratiche dei meccanismi di coinvolgimento delle risorse umane e capaci di indicare strade alternative di fronte ad ogni porta chiusa: se scenderanno in campo robot tuttofare e calcolatori straordinariamente potenti, certo il lavoro non sarà più quello di una volta, cambierà, e le persone con esso, per svolgere mansioni più specifiche e stimolanti, relegando alle macchine intelligenti le operazioni più ripetitive e faticose. La ricerca, rivolta a tutti i livelli della piramide aziendale,indica in funzionari e vertici le fasce più aperte ad accogliere le novità tecnologiche, mentre più restie si mostrano le postazioni subalterne, per le quali la coerenza (tra promesse e comportamenti) dei leader è elemento fondativo della fiducia verso il nuovo che avanza. Nuovo che inevitabilmente porterà alla perdita di occupazione, arginabile, secondo il 73% (68 in Italia) del campione, puntando sulle competenze trasversali: abilità quali comunicazione e creatività superano la soglia del 60% (55 in Italia) di preferenze, mentre è il lavoro di squadra il jolly in cima alla classifica nostrana, in cui il pensiero critico si ferma nella parte bassa, vincente per il solo 42% degli italiani (57 a livello mondiale). Il che merita una riflessione, alla luce delle più recenti ricerche, secondo cui, mentre la creatività si sta rivelando replicabile in ambito robotico, l’attitudine all’analisi critica rimane indiscutibilmente prerogativa unica dell’individuo. Quale ricetta propone, dunque, il variegato mondo delle professioni, per infondere il seme della fiducia nella cultura e nel sistema-lavoro? Gli interpellati non hanno dubbi: coinvolgimento di tutte le risorse in valutazioni e scelte legate alle implicazioni dell’Ia e valorizzazione dell’esperienza umana, evitando sopravvalutazioni di potenzialità e portata delle nuove macchine e non ingigantendo le aspettative loro legate. Occorre, piuttosto, integrare strumenti e tecnologie innovative nei processi consolidati. E, infine, ricordare che cioè che conta è la combinazione tra abilità umana e tecnologia.

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