sabato 13 agosto 2016
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Non ha senso decretare la fine della fragile ripresa italiana, dopo i dati Istat sulla crescita zero del Pil nel secondo trimestre di quest’anno (rispetto al primo). Per una serie di buone ragioni. Se sul piano statistico è presto per affermarlo, visto che servono almeno due trimestri consecutivi per indicare il trend della ricchezza nazionale, sul piano macroeconomico continuano a dispiegarsi sia la crescita globale sia quella tedesca, mentre sono già visibili elementi positivi per la nostra economia nei mesi estivi (come il forte aumento di presenze e fatturato dell’industria del turismo). Ma l’aver riconquistato la maglia nera nella classifica europea della crescita deve spingerci ad andare oltre il computo dei decimali. Per ricercare le cause profonde della "malattia italiana".Una risposta di primo livello è offerta dalle note analisi sul nostro deficit di competitività, fatto di bassa produttività, di dimensioni aziendali inadeguate e di un contesto Paese sfavorevole all’impresa, come denuncia lucidamente la Confindustria di Enzo Boccia, a partire dal peso fiscale che grava stupidamente sul binomio produzione-lavoro risparmiando rendite e patrimonio. Sono questioni stratificate che il Governo Renzi sta cercando di affrontare positivamente, in uno scenario nel quale la condivisione tra le forze politiche su prognosi e diagnosi è molto ampia, ma al tempo stesso (paradosso italiano) è elevatissima la conflittualità sulle cure necessarie. A mio avviso esiste, tuttavia, anche una risposta di secondo livello che nasce dall’osservazione dall’interno dei principali sistemi generatori di beni e servizi: la condizione prevalente di chi produce in Italia è la "solitudine", a fronte delle tutele di cui gode chi vive di rendita. Per capirci: non intendo riproporre la sterile distinzione tra pubblico inefficiente e privato virtuoso. Perché in realtà la categoria dei produttori – isolati, non supportati, addirittura disincentivati – va intesa nell’accezione più ampia: ne fanno parte non solo imprenditori, manager e professionisti, ma anche i (non pochi) amministratori locali e funzionari pubblici che ogni giorno si assumono la responsabilità di "produrre decisioni", senza rifugiarsi nella mera attività di protocollo degli atti. E che lo fanno per spirito di servizio, in un sistema di regole che spingerebbe loro a fare il contrario: a causa di controlli fondati sul rispetto formale delle regole e non sulla valutazione sostanziale dell’interesse dello Stato, che rendono il mestiere di sindaco in Italia il più complicato del mondo, e di premi di produttività nel pubblico impiego attribuiti a pioggia e per definizione incapaci di premiare il merito (su cui finalmente interviene la riforma Madia). Non lasciare soli i produttori, ricostruendo intorno a loro regole e mainstream culturale favorevoli è la "riforma" di cui avremmo disperato bisogno. O se volete, l’appello per tirare l’Italia fuori dalle secche del Pil che non cresce.
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