venerdì 18 novembre 2016
La rabbia dei settori più a rischio, dall’acciaio alla ceramica: «Difendeteci dalla concorrenza sleale, non è protezionismo»
La resa dell'Ue sui dazi alla Cina può costare 416mila posti all'Italia
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Da una parte c’è una scadenza ormai alle porte: l’11 dicembre ricorrono i 15 anni dall’adesione della Cina al Wto, l’organizzazione mondiale del commercio. E nel 2001 era stata prevista una clausola secondo cui, allo scattare di questa data, tutti i Paesi membri avrebbero dovuto concedere a Pechino lo status di economia di mercato. Dall’altra parte c’è una risposta elaborata dalla Commissione europea dopo mesi di trattative: un provvedimento, ancora da varare definitivamente, che «abolisce le liste di Paesi a economia di mercato (Mes) e non».

Ma la soluzione viene fortemente criticata dall’Italia politica e industriale in quanto opera una revisione del sistema che depotenzia la possibilità di calcolare in maniera certa e certificata il reale margine di dumping (la pratica attraverso cui si fissano prezzi all’estero inferiori a quelli del mercato interno) delle esportazioni cinesi. In mezzo a questi due fronti c’è la grande paura dell’industria europea e, in particolare, di quella tricolore, che sarebbe tra le più danneggiate del Vecchio Continente. Il timore è che una mancanza di argini efficaci alle importazioni cinesi sottocosto possa penalizzare settori nazionali strategici come l’acciaio, la ceramica, il calzaturificio, l’alluminio e tanti altri comparti del made in Italy.

Quali sarebbero le conseguenze più gravi? Miliardi di euro di fatturato bruciati e la conseguente perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro. Federacciai, in collaborazione con l’associazione Aegis Europe (che raggruppa 28 realtà europee in rappresentanza di una vasta gamma di settori), ha organizzato una conferenza per esternare tutta la preoccupazione di questo mondo nel caso in cui si verificasse un riconoscimento alla luce del sole o de facto dello status di economia di mercato al Dragone. «La Cina ha un capitale produttivo inutilizzato di circa 300 milioni di tonnellate di acciaio che equivale al doppio del consumo europeo – afferma Flavio Bregant, direttore generale di Federacciai –. Basterebbe questo dato a far capire quali sono i pericoli che si stanno correndo. Senza considerare che dal 2008 al 2015 il numero di addetti nel Vecchio Continente è già sceso da 400mila a 320mila».

In un report realizzato dall’Economic policy institute per Aegis Europe, inoltre, sono stati calcolati i posti di lavoro a rischio sia a livello europeo che per singole nazioni con la concessione a Pechino. Il dossier disegna due scenari diversi a seconda che l’impatto sia «basso» o «alto». Nell’ipotesi peggiore, il manifatturiero europeo perderebbe oltre un milione e mezzo di posizioni lavorative (1.558.700, per l’esattezza). E l’Italia pagherebbe il prezzo più salato dopo la Germania.

Nella Penisola sarebbero in bilico fino a 416mila posti, cioè l’1,9% del totale degli occupati. L’appello dei rappresentanti italiani non lascia spazio a dubbi: «L’Ue deve rivedere e migliorare la propria politica antidumping con strumenti di difesa commerciale efficaci contro la concorrenza sleale delle industrie cinesi». Mauro Cibaldi, presidente di Centroal (Centro italiano alluminio), sottolinea come «la Cina riesca già a trasportare dei prodotti semi-lavorati al costo di una materia prima». Bregant chiarisce le reali intenzioni: «Non vogliamo alcuna forma di protezionismo, bensì un libero mercato a condizioni uguali per tutti ».

Alessia Mosca, europarlamentare del Pd e membro della commissione commercio internazionale dell’organo Ue, promette battaglia su una proposta della Commissione che giudica insufficiente e carente: «Ci sarebbero troppe parti di discrezionalità nei meccanismi di valutazione, non vi sono definizioni chiare nelle pratiche di dumping da sanzionare né vengono stabiliti in maniera univoca i criteri per l’estensione dei report. Mentre serve una strategia di re-industrializzazione, che includa strumenti di difesa commerciale moderni per rinforzare l’adesione globale a una competizione leale».

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