mercoledì 16 novembre 2011
Sono cinquanta le griffe italiane quotabili. La capitalizzazione salirebbe di 28 miliardi. L’Italia è il Paese delle imprese a conduzione familiare, che preferiscono non rischiare. Ma anche i grandi nomi sono delle stesso avviso​.
Se la Borsa non è fashion di Marco Girardo
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«La mia azienda è solida, puntiamo a espanderci all’estero, soprattutto verso l’Europa dell’Est». «Noi stiamo intanto lavorando sulla piattaforma Internet»; «I mercati del futuro? I Paesi Bric, ovvio, dove contiamo di aprire nuovi punti vendita». E di quotarsi in Borsa? A questa domanda, in molti scuotono la testa. Si tratta dei responsabili di alcune note aziende italiane di moda, intervenuti nel corso del convegno su "Moda&lusso" svoltosi, e non è un caso, in piazza Affari 6, Milano. All’interno, cioé, della Borsa italiana.Il panorama delle grandi aziende italiane, da questo punto di vista, è variegato. Una decina è già quotata, e tra questi figurano alcune eccellenze del Made in Italy: Luxottica, Tod’s, Benetton, Geox, Piquadro, Marcolin, Safilo, Damiani, fino al caso più recente di Salvatore Ferragamo, che il 29 giugno ha festeggiato la prima giornata di scambi con un rialzo del 10,5% e che ha ricevuto una domanda pari a 3,6 volte l’offerta iniziale. «Al momento, non si vedono all’orizzonte nuove aziende desiderose di quotarsi», spiega David Pambianco, vice presidente di Pambianco-Strategie d’impresa che ha presentato il rapporto sulle "top 50", ovvero quelle aziende leader nella moda e nel lusso che hanno tutte le caratteristiche per quotarsi nei prossimi anni: fatturato superiore ai 40 milioni di euro, crescita superiore al 10% (dal 2007 al 2010) ed Ebitda medio di oltre l’8%. In caso di Ebitda modesto, sono state considerate quelle con un incremento di fatturato di oltre il 20%; e infine, last but not least, la notorietà del marchio. L’elenco finale comprende i leader nel settore moda (Armani, Dolce&Gabbana, Ermenegildo Zegna, Max Mara), cosmetica (Kiko), fino alla distribuzione di abbigliamento (Coin). Tutti questi gruppi, se decidessero di entrare in Borsa, porterebbero una capitalizzazione di 28 miliardi di euro «calcolata applicando dieci volte l’Ebitda», spiega Pambianco. Per avere un’idea: il valore di Borsa di quelle già quotate è di 24 miliardi di euro (dati 2010), escluso il gruppo Prada, che quest’anno ha deciso sì di quotarsi, ma a Hong Kong. «Per il resto, come dicevo, non ci sono grosse novità - prosegue Pambianco -. Da segnalare, invece, holding come Pianoforte - che comprende brand come Yamamay e Carpisa - che hanno annunciato l’ingresso, a breve, di una grossa banca nel capitale azionario». Resta da capire, allora, se la Borsa faccia davvero paura: una scelta a cui non pensa affatto, ad esempio, Nicoletta Spagnoli, che 24 anni fa ha preso le redini del noto marchio di abbigliamento femminile fondato dalla sua bisnonna Luisa. «Restiamo fedeli alla tradizione e al giusto rapporto qualità/prezzo, l’importante è questo», afferma. «Noi ci stiamo sviluppando con piani triennali o quinquennali» spiega Enrico Bracalente, amministratore unico di B.a.g. spa, titolare del marchio "NeroGiardini" (scarpe, accessori e abbigliamento). «Sappiamo che quotarsi in Borsa equivale ad avere un socio a cui dover rendere i conti ogni mattina: i bilanci devono sempre essere messi in linea e non si possono commettere errori. Mi finanzio con gli istituti di credito, capitalizzando e reinvestendo i miei utili. Quello dei fondi potrebbe essere un passo avanti, ma mi auguro di non compierlo».Sono tanti, quindi, i motivi che emergono da queste scelte. «Il fatto è che le aziende vogliono decidere il loro ritmo di crescita - spiega Pambianco - mentre la Borsa decide in base alle aspettative degli investitori. Anche se questo, ormai, è vero solo in parte: oggi il ritmo è deciso sempre più dal mercato». Conta anche la dimensione dell’azienda: moltissime, in Italia, sono a dimensione familiare e non vogliono trovarsi con investitori esterni in mezzo alla gestione. «Va considerato anche il fattore della riservatezza - aggiunge Pambianco -, perché la Borsa ti obbliga poi a rendere pubblici i conti ogni tre mesi». Eppure, sempre più società italiane del settore stanno valutando questa opzione. Per Raffaele Jerusalmi, ad di Borsa italiana, «i fabbisogni finanziari sono tanti: devono sostenere ingenti investimenti nel retail, supportarli con adeguate strategie di marketing e comunicazione, nonché - ed è questa la scommessa più importante - preservare e rafforzare l’immagine del marchio, che resta l’asset principale. Bisogna stimolare l’industria - conclude - ad una riflessione sulle opportunità che la Borsa può offrire per fare meglio impresa e crescere».
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