giovedì 9 agosto 2012
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​Un messaggio forte e chiaro che proviene da questa crisi riguarda la teoria economica dell’ultimo mezzo secolo. Se da una parte non sarebbe giusto attribuire alla scienza economica e a noi economisti la responsabilità unica né principale di questa crisi, è anche vero che, come in quella del ’29, anche in questa c’è una forte nostra corresponsabilità. Sono due, a mio parere, gli errori specifici commessi in questi anni soprattutto dagli economisti teorici più influenti nell’accademia e nella politica. Il primo, più noto e discusso, è l’aver considerato naturale, se non positiva, l’ipertrofia e l’anarchia della finanza speculativa. Il secondo, invece, è meno evidente, ma credo ancora più importante.Mi riferisco al disprezzo con cui gli economisti di maggior successo hanno considerato in questi decenni qualsiasi riferimento a elementi etici. Le voci critiche che si levavano verso i nuovi dogmi economici erano considerate "buoniste", "anime belle", e in ogni caso totalmente inutili per l’avanzamento della scienza seria e vera (ricordiamo ancora bene le prime reazioni ironiche agli articoli sui "beni relazionali", la "felicità", o su la Tobin Tax di fine anni novanta). Se si eccettua il premio Nobel Amartya Sen e pochissime altre eccezioni, chiunque in questi ultimi decenni abbia scritto di etica ed economia, di filosofia economica o di fondamenti antropologici del discorso economico, era destinato, a differenza delle passate generazioni, all’emarginazione accademica e, se era molto bravo, a pubblicare solo su riviste scientifiche di serie B o C.Alcuni economisti, molti dei quali eredi della tradizione cristiana dell’abate Antonio Genovesi, o dei beati Tovini e Toniolo, hanno continuato in questi anni a scrivere e a pensare criticamente (anche rallentando o compromettendo carriere e stipendi), dando vita ad una sorta di fiume carsico che scorreva nel sottosuolo della scienza ufficiale che continuava a ignorare e a sorridere. Oggi, dopo cinque anni di crisi, la scienza ufficiale o normale ignora e ride un po’ meno. Questa antica tradizione economica, che alcuni chiamano Economia civile, vive una stagione di grandi chances, perché ha lo spazio culturale per dire la sua. Ma occorre farlo bene, e diversamente da come ha fatto nel Novecento, quando di fronte ai grandi cambiamenti di metodo e di linguaggio della scienza economica ufficiale, gli economisti sensibili ai fondamenti morali e umanisti dell’economia si sono concentrati prevalentemente sugli aspetti etici, restando troppo all’esterno rispetto al contenuto tecnico della scienza economica. La forza culturale e il grande patrimonio di civiltà e di valori di cui l’Economia civile nel Novecento non si è così più tradotto in contenuti diversi di teoria economica, e i valori sono stati troppo spesso confinati nelle Introduzioni e nelle Conclusioni dei libri, senza intaccare i loro capitoli centrali.Oggi se vogliamo cogliere le opportunità che si stanno aprendo occorre muoversi in un’altra direzione. Qualche segno che va in questo senso c’è già, se guardiamo al lavoro di alcuni bravi giovani economisti ed economiste, molti di cultura cattolica, che cercano di entrare all’interno del linguaggio e dei teoremi economici, nel cuore della cittadella della scienza economica (penso a Pelligra, Smerilli, Zarri e pochi altri). Occorre continuare e accelerare su questa strada, incoraggiando giovani motivati e bravi a fare dottorati in teoria economica, perché quando l’economia perde contatto con la sua vocazione umanistica e sociale, smarrisce se stessa e fa smarrire la società: «Non vi è niente di più vero nelle cose umane quanto questa massima: ogni politica, ogni economica, che non è fondata sulla giustizia, sulla virtù e sull’onore, distrugge se medesima» (Antonio Genovesi, 1766).
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