sabato 13 novembre 2010
La globalizzazione, il declino demografico, la trasformazione del capitalismo: le sfide (ancora attuali) dell'Ue secondo Jacques Delors nell'ultima intervista rilasciata al nostro giornale nel 2010
Jacques Delors

Jacques Delors - Ansa

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«Pensate a cosa sarebbe accaduto, con una crisi di questa portata, se non avessimo avuto lo stato sociale a proteggere i nostri cittadini. L’effetto sarebbe stato devastante sui più deboli». Jacques Delors, 85 anni, alla presidenza della Commissione europea dal 1985 al 1994, parla con passione del "modello sociale europeo" che porta anche la sua impronta, del "dialogo sociale" che ha contribuito a costruire con sindacati e imprese. Analizza con realismo la situazione mondiale e non risparmia critiche e molta ironia alla conduzione della Commissione europea in questi ultimi anni. Sollecitando da un lato una maggiore cooperazione e dall’altro un più forte dinamismo, «anche prevedendo fughe in avanti di alcuni Paesi guida».«L’Europa si trova oggi di fronte a tre mutamenti che rappresentano altrettante sfide – spiega l’esponente politico francese, da giovane vicino al movimento dei lavoratori cristiani, poi una vita nel Parti Socialiste con incarichi di governo. – La globalizzazione per prima cosa, ma anche il declino demografico e la trasformazione del capitalismo. Dobbiamo anzitutto prendere atto del cambiamento dei rapporti di forza tra aree continentali. Avere l’umiltà di capire e studiare le culture e le storie diverse da quella occidentale. Certo, poi c’è la concorrenza sleale dei mercati del lavoro, che chiede a noi di essere più produttivi e più innovativi, cercando però sempre di assicurare a tutti un lavoro. C’è il problema dell’immigrazione, non facile da risolvere, ma che può essere solo aggravato se si sfrutta il tema in maniera demagogica, per pura speculazione politica come avviene spesso oggi, nell’era dell’individualismo esasperato che porta al populismo e al nazionalismo».

La crisi è stata innescata dalla finanza e ora coinvolge bilanci pubblici ed economie. Come se ne esce: con maggiore rigore o con misure di stimolo?

Ricordo un banchiere che, infastidito dalle mie preoccupazioni, mi rispondeva: "Lei ignora la creazione di valore...". Ma non si può creare valore solo azionario, perché prima o poi il gioco finisce. Così come non si può lasciare la speculazione libera di agire. Noi cittadini abbiamo pagato per salvare le banche. Ma oggi, se si mettono in campo misure di stimolo, si aumentano i debiti pubblici e le banche speculano contro i Paesi indebitati. Se si mantiene un rigore di bilancio, le stesse entità finanziarie dicono: "Non crescerete abbastanza" e così speculano ancora contro. La realtà è che occorrono anzitutto regole forti per la finanza a livello europeo, o meglio sarebbe mondiale. Agli annunci, però, non vedo seguire i fatti. E questo è anche peggio.

Pure in Europa, infatti, si fatica ormai a trovare un accordo...

Abbiamo due problemi. Il primo è che l’Ue ha visto porre in secondo piano la dimensione economica rispetto a quella monetaria, ed è certamente un errore da rimediare. Quando l’Irlanda faceva concorrenza sleale agli altri partner sulla tassazione delle imprese, l’Unione europea doveva tirarle le orecchie. O quando in Spagna andava gonfiandosi la bolla immobiliare non dovevano essere lanciati allarmi e richiami? Perché non è stato fatto? Il secondo è che manca una "pedagogia europea". Avete mai sentito un politico tornare da un vertice continentale e dire: «L’Europa ha vinto, l’Unione ha vinto»? No, dirà: «Io ho vinto, il nostro Paese ha ottenuto...». Occorre invece una "cooperazione rafforzata" in particolare nelle politiche macroeconomiche, nel settore dell’energia e nella ricerca. Dobbiamo essere esigenti con noi stessi e con le istituzioni europee, accentuando il dinamismo, con alcuni Paesi che vanno più avanti, che stimolano il progresso.

Ma come possono coesistere "cooperazione rafforzata" e dinamismo, non sono in contraddizione?

Già oggi, quando parlano Barroso o qualche altro esponente, vorrei sempre capire: «Ma è la posizione dei 16 Paesi dell’euro o dei 27 dell’Unione»? E se non ci fossero stati in passato cambi di velocità di alcuni Paesi non avremmo mai avuto né l’euro né il trattato di Schenghen e la libera circolazione. All’interno di una unione più grande a 27, con le sue regole da rispettare, per progredire serve che alcuni Paesi si assumano maggiori responsabilità e "tirino" anche gli altri su posizioni più avanzate. L’Europa è come la bicicletta: ad andare piano si fa più fatica e si è instabili, bisogna pedalare forte.

L’Europa sta invecchiando e fa sempre meno figli. È una delle cause del declino?

Dobbiamo prendere atto della nostra minore rilevanza. Nel Dopoguerra l’Europa rappresentava il 15% della popolazione mondiale, nel 2030 saremo appena il 6%. L’allungamento della vita media, in sé una buona cosa, pone nuovi problemi e non dobbiamo, come pure è stato fatto in passato, scaricarne i costi sui più giovani. D’altro canto, la politica inglese ha anche dimostrato che non basta offrire pari opportunità a tutti per migliorare la condizione dei più deboli. Occorre sempre accompagnare le persone, perché non tutti sono capaci di cogliere le opportunità. Se dovessi indicare delle priorità, direi di puntare su un grande piano di formazione continua per gli adulti e un forte investimento sui bambini poveri, perché non abbiano a soffrire anche di carenze culturali e sociali.

Ma per salvaguardare la protezione dello stato sociale occorre rivederlo in maniera profonda o fare solo piccoli aggiustamenti?

Chi propone cambiamenti profondi, in realtà intende distruggerlo. Privatizzando tutto, con il rischio che poi i lavoratori si ritrovino senza pensione e senza le altre tutele. Siamo di fronte a un attacco ideologico e politico allo stato sociale. Va mantenuto e rafforzato lo spirito di solidarietà che ne è il presupposto. Poi le modalità possono essere riviste e soprattutto ogni nazione deve tener conto delle proprie specificità, non stancandosi di dialogare con le parti sociali e valorizzando l’apporto della società civile e del non profit. La prospettiva non può essere solo quella di giudicare tutto dai costi di bilancio, perché lo stato sociale è anche un fattore di produzione: ha portato a un progresso enorme delle condizioni di vita in Europa e ci ha protetto nelle crisi.

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