lunedì 9 ottobre 2023
La guerra protagonista inaspettata all'apertura della Genoa Shipping Week dedicata agli scambi sulle rotte del Mare Nostrum. «Il Mediterraneo risente per primo dell'instabilità»
Timori per il Canale di Suez. Gli armatori: «Se chiude ci fermiamo»
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Gli effetti della guerra israelo-palestinese non si misurano ancora in tonnellate e fatturati, ma nei porti italiani c’è già molta preoccupazione. «Siamo un Paese, o per meglio dire siamo un’Europa che importa ed esporta molto e se non manteniamo transitabile il canale di Suez la nostra economia si ferma. Il Mediterraneo è da tempo una regione piena di conflitti. Lo dimostra anche il fatto che da quando si sono disimpegnati gli americani si è verificato un intenso riarmo, in termini di navi militari, di Algeria, Egitto e Turchia e la presenza russa è cresciuta da uno a dieci» ha spiegato Giuseppe Berutti Bergotto, sottocapo di Stato Maggiore della Marina.

Una situazione esplosiva che può impattare su tutta l’economia, partendo dal mare per arrivare al supermercato. «Muoviamo ogni anno 500 milioni di tonnellate di merci - ha aqgiunto il presidente di Federagenti Alessandro Santi, che ha riunito gli esperti a discutere di traffici via mare nell’ambito della Genoa Shipping Week, guidata da Paolo Pessina (Assagenti) - e ci scopriamo dipendenti da queste crisi all’improvviso perché l’Italia ha voltato le spalle al mondo del mare per troppo tempo».

Appello immediatamente raccolto dal viceministro dei trasporti Edoardo Rixi: «Siamo in una fase di trasformazione e nelle prossime settimane le Camere si confronteranno sulla riforma dei porti - ha detto a Genova -; dobbiamo digitalizzare per far lavorare i porti più ore e stiamo pensando a pedaggi differenziati sulle autostrade e a diversi orari di lavoro nella logistica, ma ci servono i dati e di dati sicuri. Parlo di una sicurezza di livello militare». Si pensa a una piattaforma logistica al servizio dei commerci marittimi molto più efficiente e ottimizzata rispetto ad oggi, in grado di darci competitività nel geocommercio che è in rapida evoluzione.

Sono alcuni anni, ormai, che si assiste a una regionalizzazione dei trasporti marittimi, innescata dalla fine della globalizzazione (con reshoring) e subito dopo ridisegnata dal conflitto russo-ucraino. La nostra “regione” commerciale e logistica, beninteso, non è il Mare Nostrum, ma quella atlantica; tuttavia, il Mediterraneo ha una sua centralità perché gioca il ruolo della connessione tra quel bacino commerciale e quello indo-asiatico: «Non è irrilevante allora - ha commentato Berruti - che solo il 20% di questo mare interno sia esente da dispute. Pensate che l’Algeria ha esteso la sua zona economica fino all’area di Cagliari e parliamo di rivendicazioni che ricadono, ad esempio, sulla pesca e lo sfruttamento del sottosuolo».

Uno dei maggiori operatori nel trasporto di materie prime via mare, Nova Marine Carriers (40 milioni di tonnellate all’anno) prima era legatissimo alla Cina mentre adesso fa la spola tra i produttori dell’Africa occidentale e del continente americano e le industrie italiane ed europee. «Il Mediterraneo non fa da sé e non sarebbe in condizioni di farlo - ci dice il Ceo Vincenzo Romeo - ma in questo mare c’è un grande movimento che, per ora, non è condizionato dalla crisi isrealo-palestinese. I greci stanno costruendo una flotta di grandi navi gasiere, la Francia è uno dei grandi produttori cerealicoli e c’è l’Europa, con il mercato russo alle spalle, che importa materie prime ed esporta lavorati e semilavorati. Questo significa che il Mediterraneo, essendo un crocevia di interessi, risente per primo dell’instabilità». La quale non dipende solo dalle armi: «Il costo di Suez - ha sottolineato ieri l’armatore Ignazio Messina - è aumentato mentre i noli calavano e anche l’Ets europeo potrebbe metterci fuori mercato». Anche prezzi e disponibilità del carbone stanno ridisegnando il mercato: il consumo di questa materia prima è diminuito quest’anno e quella che sembra una buona notizia per la transizione ecologica comporta in realtà una rinnovata dipendenza della nostra industria cementiera, che importa cenere di carbone dalla Turchia.

Il mercato del carbone non risente dell’instabilità mediorientale di queste ore ma sconta ancora gli effetti di pandemia e guerra russo-ucraina. Li sconta, ovviamente, l’industria siderurgica italiana, che il mercato obbliga, e non da oggi, a cambiar pelle. A Genova, il presidente di Federacciai (e di Duferco) Antonio Gozzi, ad esempio, è tornato a chiedere ad ArcelorMittal di investire nell’ex Ilva: «Se il socio di maggioranza è in grado di metterci i soldi e il management è la soluzione migliore ma se non lo fa, quell’azienda non può andare avanti». Inoltre, bisogna decarbonizzare quel polo perché nel 2028, «quando bisognerà comprarsi le quote di anidride carbonica, ci saranno 200 euro a tonnellata di costi che, alla situazione attuale, farebbero chiudere quell’azienda».



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