domenica 15 agosto 2021
Carlo Tamburi (direttore Enel per l'Italia) fa il punto sul difficile passaggio dell'Italia verso un'energia più pulita: il target per la produzione da rinnovaibli salirà dal 55% al 70% da qui al 2030
Carlo Tamburi

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La transizione energetica italiana verso le fonti rinnovabili va troppo piano e andrà accelerata. "Ma il ricorso alla produzione con centrali a gas, in sostituzione di quelle a carbone, resta indispensabile per garantire la stabilità del sistema elettrico. E si ridurrà allo stretto necessario". Carlo Tamburi, il direttore Enel per l’Italia, fa il punto con Avvenire sul difficile passaggio del nostro Paese verso un’energia più pulita proprio mentre l’Onu rilancia l’allarme sui rischi del cambiamento climatico e il governo lavora all’aggiornamento del Piano integrato energia e clima (Pniec). "Sulla base delle nuove indicazioni della Ue, il target per la produzione di energia da fonti rinnovabili nel 2030 sarà aumentato dall’attuale 55% a una quota vicina al 70%. Ma il residuo 30% dovrà essere comunque a gas, non ci sono tecnologie alternative", sottolinea il dirigente del maggior produttore italiano di energia.

Dottor Tamburi, come procede l’iter di chiusura delle centrali a carbone?

Siamo preoccupati perché i mesi passano e stiamo sempre aspettando le autorizzazioni Via dal ministero della Transizione Ecologica per la costruzione delle nuove centrali a gas di La Spezia e di Fusina, impianti che renderanno possibile lo stop alla produzione con il carbone nei due siti. La scadenza del 30 giugno per la presentazione dei titoli autorizzativi prevista dai contratti con Terna è stata prorogata al 31 ottobre quindi c’è un po’ di tempo in più, ma non siamo ancora arrivati al dunque. Tanto più che dopo questo passaggio servono le intese con le Regioni.

Cosa accadrebbe se scadessero i termini?

Terna presumibilmente risolverebbe i contratti che prevedevano l’avvio della produzione entro il 2023. La conseguenza sarebbe che le centrali a carbone nei due siti, che sono oggi sono funzionanti anche se solo marginalmente in esercizio, non potrebbero essere chiuse entro il 2023, come avevamo programmato anticipando la scadenza del 2025 indicata dal governo. Va considerato che per la costruzione degli impianti a gas servono due anni di tempo. E poi in assenza di un contratto con Terna nell’ambito del Capacity Market, che assicura una certa remunerazione della produzione, ogni investimento sarebbe in perdita. Enel rifarà i suoi calcoli ma è molto probabile che non potremmo procedere con gli investimenti.

Perché sono necessari nuovi impianti a gas, non si potrebbe accelerare sul superamento delle fonti fossili?

Per assicurare la funzionalità del sistema c’è bisogno di impianti flessibili che entrino in funzione nel momento in cui c’è un calo della produzione da rinnovabili. Servono tecnologie, come il gas o le batterie, per colmare questo gap. Noi abbiamo previsto 4 nuovi impianti che sono lo stretto indispensabile per far sì che il sistema stia in piedi. E quanto più questi impianti sono nuovi ed efficienti e bassamente emissivi tanto meglio è. Ci sono altre centrali a gas in attività che andranno chiuse entro il 2030 perché costruite 20-30 anni fa. Sostituirle con macchine nuove permette un miglioramento ambientale importante, perché a parità di energia elettrica prodotta le emissioni si riducono. E i costi di produzione più bassi danno un beneficio anche sul piano dei prezzi.

La diffusione delle rinnovabili non decolla, come mai?

Questo è l’altro problema perché anche qui le autorizzazioni ai nuovi impianti stanno andando a un passo di lumaca. Servirebbero 7mila MW in più all’anno per arrivare al citato 70% nel 2030 e invece siamo a meno di mille MW. Confidiamo che i decreti di semplificazione possano dare una spinta alla penetrazione delle rinnovabili ma finora gli iter autorizzativi hanno superato i 4-5 anni anche per centrali relativamente piccole.

Si è parlato di un ridimensionamento del vostro piano sul gas.

Tutti i nostri progetti sono modulari, prevedono un impianto "a ciclo aperto" da 500 MW e poi un successivo "ciclo chiuso" che aggiunge altri 300 MW. Un passaggio che può essere valutato alla luce della penetrazione delle rinnovabili nel sistema. Questo resta lo schema che proponiamo per La Spezia e Fusina. Che potrebbe essere replicato anche negli altri due siti di Civitavecchia e Brindisi, dove avevamo in progetto due impianti più grandi, da 1.600 MW, ma ci siamo resi disponibili a un dimezzamento a 800 MW. Ciò significa un calo dei due terzi della capacità oggi installata, che è di 1.900 MW a Civitavecchia e 2.600 a Brindisi. Infine c’è la Sardegna. Per l’impianto del Sulcis secondo noi ci sarebbero tecnicamente le condizioni per non fare la riconversione dal carbone al gas e abbiamo proposto di fare tutte fonti rinnovabili con le batterie di accumulo. È un rafforzamento della nostra tesi che dice che il passaggio al gas va fatto solo dove è necessario e non ci sono alternative.

Le comunità locali, ad esempio a La Spezia, il gas non lo vogliono. Come affronterete questo scoglio?

Si parla solo dell’impianto a gas ma noi abbiamo una progettualità più ampia. Vogliamo trasformare i vecchi siti a carbone in nuovi poli energetici integrati innovativi. Che vedranno la produzione sia fotovoltaica sia la presenza di batterie, sia impianti a gas nella misura in cui servono al sistema elettrico nazionale, sia anche iniziative con altri soggetti integrati sul territorio per dare nuove opportunità di sviluppo imprenditoriale. Progetti che hanno come centro la strategia della transizione energetica e sui quali stiamo dialogando con gli enti locali e le associazioni dei territori interessati.




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