mercoledì 16 ottobre 2019
Bertolaso: nella quarta rivoluzione industriale rischio solitudine. Ritrovare la speranza e il contatto
Marta Bertolaso, professore associato dek Campus Bio-Medico di Roma

Marta Bertolaso, professore associato dek Campus Bio-Medico di Roma

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L’ingresso massiccio dell’automazione nei processi industriali è ciò che oggi viene chiamata 'quarta rivoluzione industriale', nell’ambito dell’economia della conoscenza e dell’informazione e della trasmissione sempre più accelerata di dati e flussi digitali nell’intero pianeta. In questo contesto cambia non solo il modo di produzione ma l’intero contesto umano, sotto la spinta di una tecnologia in perenne accelerazione. Per riflettere su questi temi, la Pontificia accademia delle scienze sociali ha svolto un simposio internazionale con un titolo che evidenzia le sfide del nostro tempo: 'Dignità e il futuro del lavoro'. Vi hanno partecipato economisti (Sachs e Zamagni), sociologi (Donati e Giovannini) e sindacalisti (Bentivogli). Tra gli altri studiosi presenti anche Marta Bertolaso, professore Associato di Logica e Filosofia della Scienza all’università Campus Bio-Medico di Roma, con cui abbiamo fatto un bilancio dell’evento.

Professoressa Bertolaso, quali sono le caratteristiche della quarta rivoluzione industriale?

L’elemento chiave è la pervasività della tecnologia automatizzata, che cambia stili e modi di lavoro, ma che entra anche nei processi cognitivi, riorganizzando la percezione del mondo e le relazione a tutti i livelli. Si tratta di cambiamento molto avanzato, ma di cui spesso sottovalutiamo la portata. Dispiega i suoi effetti a partire dall’educazione fino alle relazioni internazionali.

Qual è lo sguardo della Chiesa su tutto ciò?

Dai lavori è emersa una visione critica che mira a distinguere nei progressi tecnologici ciò che c’è di vero e ciò che non lo è. Ma c’è anche una consapevolezza che le nuove sfide possono aiutare le persone ad avere un diverso approccio al lavoro. Ciò che non possiamo accettare è la rinuncia all’essere umana nel panorama tecnologico. Non va assecondata l’agenda transumanista, mentre, in una Chiesa che è madre, dobbiamo costruire la speranza come capacità generativa, come unione positiva di aspetti privati, pubblici e civici.

Può fare qualche esempio concreto di una prospettiva umanista?

Possiamo e dobbiamo chiederci come formare i giovani, perché abbiamo una responsabilità per le nuove generazioni. Il cosiddetto life-long learning process, cioè una formazione continua e aggiornata dovrebbe diventare uno stile, una necessità e un diritto per tutti. Si deve essere pragmatici sulla base di valori radicati in tradizioni religiose forti. In questo senso, la formazione non va vista come costo bensì come investimento, perché nessuno rimanga indietro e aumentino le diseguaglianze. Questo è un grande rischio che va scongiurato nell’economia dei dati, portata a creare forti disparità. Perché oggi siamo più soli, come ha detto lei nella sua relazione? Pur in un mondo iperconnesso, cresce la solitudine. Dovremmo invece ricordarci sempre che la persona è un essere relazione. Non ci possono bastare le tecnologie come mediatori delle relazioni interpersonali. La presenza fisica non può essere sostituita. Il contatto diretto è qualcosa di cui, per esempio, i bambini hanno bisogno per uno sviluppo armonico, sia fisico sia psichico. Il rischio della digitalizzazione non è la velocità, ma la smaterializzazione delle relazioni. Ci manca invece la buona solitudine, che si basa sui ritmi fisiologici, uno stare da da soli per poi stare con gli altri. Per prendere il buono della tecnologia ed evitare i suoi fallimenti.

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