giovedì 30 novembre 2017
In nessun altro paese europeo si stanno costruendo tanti shopping centre, che ora aprono anche dentro le città. Spaventando i negozianti e smentendo le teorie sugli effeti apocalittici dell'e-commerce
Lo spazio all'aperto del centro commerciale Shopping District di City Life nel giorno dell'inaugurazione

Lo spazio all'aperto del centro commerciale Shopping District di City Life nel giorno dell'inaugurazione

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Il centro commerciale che ha aperto ieri fra le tre torri disegnate dalle archistar Hadid, Libeskind e Isozaki, lì dove una volta c’era la Fiera di Milano e oggi ci sono uffici e case di lusso, è la più solida smentita delle visioni apocalittiche sull’inesorabile estinzione del negozio fisico ad opera di Amazon e degli altri campioni del commercio elettronico. Una smentita brick and mortar direbbero gli americani, con un’espressione che letteralmente significa “mattoni e malta” ma che più in generale indica con efficacia l’economia reale, quella che si muove in spazi fisici e non virtuali.

L’apertura dello Shopping District di CityLife – che ha i suoi ristoranti e il cinema, e i negozi con le commesse, i camerini, le casse e le vetrine – non è un caso isolato. In Italia il commercio al dettaglio sta vivendo più intensamente del resto d’Europa un momento sorprendente, in cui l’esplosione delle vendite online si accompagna a un rinascimento dei centri commerciali. La crescita del commercio elettronico italiano è portentosa: le rilevazioni dell’Oservatorio eCommerce B2c di Netcomm e della School of Management Politecnico di Milano mostrano che negli ultimi cinque anni gli acquisti di prodotti fisici via Internet sono quasi triplicati, passando da 4,3 a 12,3 miliardi di euro, fino a sorpassare quest’anon per la prima volta gli acquisti online di servizi, come i viaggi o le polizze Rc Auto. C’è ancora spazio per crescere, se si considera che l’online vale il 6% dello shopping italiano, una quota relativamente bassa rispetto al 12% conquistato in Francia, al 14% della Germania o al 19% del Regno Unito.

È stupefacente anche la crescita dei centri commerciali. Secondo l’ultima indagine del gigante dell’immobiliare Cushman & Wakefield sugli shopping centre, l’Italia con 100mila metri quadri di nuovi spazi commerciali realizzati nella prima parte del 2017 è la nazioni più vivace dell’intera Europa occidentale. Dopo le sedici nuove aperture nel 2016, compresa quella del Centro di Arese, uno dei più grandi centri commerciali d’Europa, quest’anno ne sono arrivate altre dieci, tra le quali spiccano CityLife il centro Adiageo, nel veronese. L’ultimo censimento della società di consulenza al retail Reno conta 949 centri commerciali in Italia, cioè 41 in più rispetto al 2012. Entro il 2020 sono previste altre diciotto aperture, tra le quali quella di Westfield, progetto da 1,4 miliardi di euro di investimento su Segrate per soffiare ad Arese il posto di centro commerciale più grande d’Europa.

«Sì, il momento è positivo. Abbiamo un evidente aumento dei passaggi, cioè delle persone che visitano i grandi centri commerciali, con un’offerta merceologica sempre più articolata» conferma Gianenrico Buso, managing director di Reno. La crescita però non è per tutti. Faticano i centri commerciali più piccoli e locali, poveri di grandi marchi e di altri elementi attrattivi. Hanno successo i centri commerciali di dimensioni più grandi, che sanno offrire qualcosa di più dei semplici negozi. I tecnici definiscono “ancore” quelle attività che convincono il cliente a restare all’interno dello spazio commerciale.

«L’Italia non è Dubai, dove nei centri commerciali ci sono anche le piste da sci – ricorda Buso –. Da noi il discorso delle ancore è stato poco sviluppato. Ci sono i cinema e poco altro. Forse vedremo novità interessanti nel centro di Westfield. Oggi le food court, gli spazi per la ristorazione, sono il polo attrattivo su cui si punta e si investe». È una questione di shopping experience: il negozio fisico faticherà a battere quello virtuale sui prezzi, ma sull’esperienza di acquisto non c’è partita. «L’e-commerce alle donne ha tolto un momento di consumo, quello che chiamiamo “shopping terapeutico” – ragiona Buso –. Resta la necessità di fare acquisti in compagnia e avere un momento per ritrovarsi, magari dietro un caffè o un buon piatto di pasta».

L’online non basta. Se lo ha implicitamente ammesso anche Amazon, aprendo i suoi primi negozi “fisici” negli Stati Uniti, ancora più lo riconoscono i grandi gruppi dell’abbigliamento e della tecnologia, che mentre potenziano le loro piattaforme di vendita via Internet non rinunciano a mettere vetrine reali nei posti che contano. Nel nuovo centro di Milano ci saranno i negozi monomarca di brand come Piquadro, Adidas, Max&Co o Tommy Hilfiger. Ma anche il primo flagship store della cinese Huawei, nuova potenza globale degli smartphone. A confermare che anche per i giganti dell’innovazione i negozi fisici restano fondamentali. «Il nostro obiettivo finale è sempre uno: arrivare all’utente finale nel modo migliore e più completo possibile. Anche per questo motivo abbiamo scelto una politica molto equilibrata fra i canali distributivi. Con l’apertura di un flagship store vogliamo semplicemente testare e individuare format, soluzioni ed esperienze di relazione e di shopping nuove in un contesto nel quale oggi i processi di acquisto sono in forte movimento» spiega Pier Giorgio Furcas di Huawei Italia.

Una delle novità di CityLife è un centro commerciale urbano, che nasce dentro la città. È una tendenza affermata da qualche anno, nel resto d’Europa, e una novità per l’Italia, dove si stanno sviluppando altri progetti simili. A Roma l’anno prossimo aprirà Valle Aurelia Mall, a 800 metri dalle mura vaticane. I negozianti storici sono spaventati da questi giganti che entrano nei quartieri. Arrivano a fare concorrenza a commercianti già sufficientemente indeboliti dalla crisi e dalla rapida evoluzione del settore. A febbraio l’ufficio studi di Confcommercio ha mostrato una ricerca inquietante che mostra come in Italia tra il 2008 e il 2016 siano spariti 60mila piccoli negozi, un calo del 12,4% che è stato anche più accentuato nei centri storici.

Mariano Bella, direttore dell’ufficio studi, pone la questione in maniera diretta: «Il commercio di prossimità è la prima infrastruttura sociale per mantenere l’Italia come la conosciamo da oltre mille anni. L’Italia delle città, dei comuni, dei campanili, della varietà… Il centro delle nostre città, con i suoi negozi, è già anche un centro commerciale. Quando però i centri commerciali organizzati arrivano nei centri storici allora si pone un problema di coordinamento di queste strutture con il resto delle infrastrutture cittadine. Potrebbero andarci i negozianti, in quei centri commerciali, se non fosse che spesso certe infrastrutture della grande distribuzione sono emanazione di opinabili operazioni immobiliari e finanziarie che lasciano poco spazio ai negozi tradizionali. Con l’arrivo di strutture importate dall’estero c’è il rischio di snaturare il centro storico delle nostre città. Poi io non dico che non si debba fare, ma se noi riteniamo che l’infrastruttura commerciale tradizionale italiana ha un valore, allora sarebbe il cado di fare decidere i cittadini, di fargli scegliere quale futuro vogliono per le loro città».

Tra il boom degli acquisti online e il fiorire dei centri commerciali c’è il rischio di trascurare un dato significativo: l’indice italiano del commercio al dettaglio è ancora sotto i livelli di prima della crisi. Per i beni non alimentari c’è ancora da recuperare un 2,5%. I portafogli da cui possono attingere tutti questi negozi, reali, virtuali, piccoli o grandi, sono sempre gli stessi. E sono un po’ più vuoti di qualche anno fa.


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