martedì 31 luglio 2018
Gli alimenti “italian sounding” hanno un impatto economico globale di 90 miliardi di euro: il triplo dell’export italiano del comparto nel 2017. Si creerebbero tra i 100/150 mila posti in più
Così la tutela dei prodotti italiani aumenta l'occupazione
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L'agroalimentare rappresenta una grande risorsa per il nostro Paese. Il settore dà lavoro a un milione e 385 mila persone, pari al 5,5% degli occupati in Italia a fine 2017. Di questi la parte più grande (oltre 900mila) sono gli addetti all'agricoltura, mentre l'industria alimentare assorbe circa 465mila posti di lavoro. I numeri, relativi ai primi tre mesi del 2018 e diffusi da Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare – ente pubblico economico vigilato dal Mipaaf), segnalano per il settore agroalimentare italiano un inizio di anno in chiave positiva sul fronte delle esportazioni. Il dato sull’export nazionale complessivo indica per il periodo una crescita – rispetto al primo trimestre 2017 – del 2,6% (per un totale di 105 miliardi di euro). L’agroalimentare cresce con una percentuale superiore rispetto alla dinamica globale delle esportazioni italiane: l’export di cibi e bevande nel periodo gennaio-marzo 2018 mette a segno un +3,3% rispetto allo stesso trimestre del 2017. Si conferma dunque la tendenza in forte espansione del made in Italy all’estero, con una crescita dell’export in valore pari al +22% negli ultimi cinque anni, fino al superamento dei 41 miliardi di euro nel 2017 (una cifra pari a circa il 2,3% del Pil nazionale), e all’ulteriore crescita nell’export alimentare 2018.

Dazi e contraffazione - che ammonta a 52 miliardi di euro l’anno - oltre ai marchi che richiamano "furbescamente" ai prodotti italiani non fermano la crescita del vero made in Italy. Assocamerestero – l’Associazione che riunisce le 78 Camere di Commercio Italiane all’Estero (Ccie), Soggetti imprenditoriali privati, esteri e di mercato, e Unioncamere – ha presentato i risultati dell’indagine 2018 sui prodotti alimentari “italian sounding” con focus in due aree, Europa e Nord America. Lo studio è inserito nell’ambito del progetto “True Italian Taste”, promosso e finanziato dal ministero dello Sviluppo Economico per la campagna di promozione del cibo 100% italiano, e realizzato da Assocamerestero in collaborazione con 21 Camere di Commercio Italiane all’Estero.

«Questo fenomeno - spiega Gaetano Fausto Esposito, segretario generale di Assocamerestero - riguarda l’utilizzo di nomi e immagini che possono richiamare il consumatore straniero ad acquistare prodotti che in realtà non sono italiani. Non si tratta di contraffazione, ma di un'abile e furbesca operazione di marketing. Il volume d’affari dell’italian sounding è di 90 miliardi di euro a livello globale, valore che negli ultimi dieci anni è cresciuto del 70%, e pari al triplo del fatturato dell’export italiano del settore alimentare (32,1 miliardi di euro nel 2017). Non serve la repressione del fenomeno, ma l'educazione del consumatore. Ci sarebbe anche una ricaduta occupazionale stimata tra le 100mila e 150mila unità in più».

Dal focus sulla tipologia dei prodotti emerge che per le due aree interessate la categoria più colpita dal fenomeno è quella della confectionery: il 42% dei prodotti “imitati” sono piatti pronti e surgelati, conserve e condimenti; seguono i latticini (25,1%), la pasta (16,1%), i prodotti a base di carne (13,2%) e i prodotti da forno (3,6%). I risultati cambiano se si analizzano separatamente le due aree: in Europa si registra per i prodotti della confectionery un livello di diffusione superiore alla media generale mentre nell’area Nafta salgono al primo posto i latticini.

Tra gli oltre 800 prodotti italian sounding mappati figura la “pizza carbonara” o la “mortadela Siciliana” rilevati in Spagna, mentre nell’area Nafta sono frequenti le storpiature come “sarvecchio” al posto di “stravecchio” o la “sopressata” che perde una “p”, infine, in Francia e Olanda, uno speciale Limoncello viene presentato come un liquore da aperitivo.

Per valutare gli impatti economici del fenomeno è stato elaborato un indice dei costi, che misura quanto i prezzi dei prodotti italian sounding si distanziano da quelli corrispondenti del made in Italy autentico. Nonostante i valori cambino in base allo Stato considerato e alla categoria di prodotto, risulta evidente che l’abbattimento di costo più forte si registra nel Regno Unito (- 69%), testa a testa con la Germania (- 68,5%) seguiti con risultati pressoché analoghi dal Belgio (-64,9%) e dall’Olanda (- 64,3%); ci si muove su tassi di risparmio più contenuti in Svizzera (-33,9%) e in Lussemburgo (-25%).

In alcune aree geografiche sono stati registrati dati fuori tendenza: alcune tipologie di prodotto possono arrivare a costare fino a due terzi in più degli originali. I latticini e prodotti-caseari d’imitazione italiana sono venduti in Francia e in Svizzera rispettivamente al 13,9% e al 34,5% in più rispetto all’originale. Relativamente al settore confectionery, è il Lussemburgo che registra valori anomali, con un aumento di prezzo del 18,3% rispetto al prodotto italiano; il ribasso più forte, invece, si ha in Spagna e Olanda. La Germania ha il primato per l’abbattimento dei costi maggiore per la pasta (- 47,9%), e in disallineamento troviamo, ancora, la Svizzera e la Francia, che aumentano i prezzi del 33% e del 16,6%. Per i prodotti da forno in Spagna si paga fino al 10,7% in più rispetto al prodotto autentico, mentre in Francia i costi sono più bassi di oltre il 47%.

Con True Italian Taste sono stati coinvolti più di 500mila operatori del settore in oltre 200 iniziative in Europa e Nord America. «Il progetto - precisa Esposito - ha lo scopo di ampliare la diffusione e la conoscenza dei prodotti agroalimentari autenticamente italiani, con l’obiettivo di aiutare il consumatore estero a distinguerli da quelli italian sounding. I destinatari sono principalmente gli importatori di prodotti agroalimentari italiani, i distributori all’estero, i proprietari di ristoranti italiani all’estero, i responsabili acquisti di catene alberghiere e negozi specializzati nelle aree di riferimento, i principali chef e food blogger dei diversi Paesi, così come i giornalisti di settore, i nutrizionisti e i testimonial del food. Il progetto è partito nel 2016 su nove piazze di Usa, Canada e Messico con le Ccie di Chicago, Houston, Los Angeles, Miami, New York, Montréal, Toronto, Vancouver e Città del Messico, cui si sono aggiunte dal 2017 12 piazze europee con le Ccie di Barcellona, Madrid, Londra, Francoforte, Monaco, Bruxelles, Lussemburgo, Amsterdam, Lione, Marsiglia, Nizza e Zurigo. Entro l’anno il progetto si aprirà all’Asia».

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