sabato 17 febbraio 2018
Senza impianti adesso l’Ue trema. La crescita della sensibilità ecologica e la gran quantità di materiali di scarto del Vecchio Continente sono i due motivi alla base della scelta
La Cina rifiuta la plastica europea
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Da risorsa a problema in pochi anni, complice la crescita esponenziale della sensibilità ecologica in Asia orientale e della quantità di rifiuti non biodegradabili prodotti nel Vecchio continente. Per questo la Cina ha deciso di chiudere le porte ai materiali riciclabili 'made in Europe', finora fonte insieme di sollievo per l’Unione europea e di materiali indispensabili per lo sviluppo cinese.

Un’altra testimonianza che i 'giochi' ora si dovranno fare ad armi pari e non più da una posizione di debolezza del colosso cinese. Mettendo allo stesso tempo i Paesi europei davanti alla scelta del biodegradabile. Rinviare questa transizione significherebbe inondare – con complicità locali e gravi danni ecologici – altre aree del pianeta con una parte consistente dei 10 milioni di tonnellate di rifiuti plastici europei, americani e giapponesi destinati alla Cina. Ma anche rischiare di arrivare a una nuova crisi in tempi brevi.

In Europa il sorpasso del riciclo di plastica, vetro e stracci su quanto avviato alla discarica e alla distruzione è già realtà, come confermato da uno studio Post-consumer Plastic Waste Management commissionato da PlasticsEurope, aggregazione dei produttori del settore: nel 2016 dei circa 27 milioni di tonnellate di plastiche raccolte nell’Europa dei 28 oltre a Svizzera e Norvegia, il 72,7% è stato recuperato con varie modalità (era stato il 69,2% nel 2014). È il risultato di una tendenza al riciclo cresciuta dell’80% nell’ultimo decennio. Un miglioramento che tuttavia rende necessario esportare in Asia grandi quantità di materiali da riciclare. La scorsa estate, però, la Repubblica popolare cinese ha notificato all’Organizzazione Mondiale del Commercio che avrebbe bloccato da inizio 2018 l’importazione di 24 tipologie di materiali, tra cui plastica riciclabile, residui tessili, carta straccia di qualità inferiore, calcinacci.

Spesso infatti le sostanze sono mescolate con altre non dichiarate o tossiche, fatto che ha sollevato l’attenzione delle autorità cinesi impegnate in una massiccia campagna di ripristino ecologico. Di conseguenza, Pechino ha concretizzato mosse per limitare la yang laji, la 'spazzatura straniera', finora una risorsa del valore stimato di 17 miliardi di dollari, con un apporto supplementare di 4,6 miliardi per la Regione autonoma speciale di Hong Kong. Solo il tempo dirà se la Cina riuscirà nel suo sforzo di far scendere la propria percentuale di materiali di scarto allo 0,03% come ampiamente propagandato e se decollerà l’accordo di dicembre tra Parlamento Ue e Paesi membri per arrivare a riciclare in proprio il 65% di rifiuti entro il 2035, contro meno del 30% attuale, ma sicuramente i contraccolpi della decisione cinese saranno sensibili. Il blocco delle importazioni cinesi di plastica da riciclare è un problema enorme per Paesi come la Germania, sprovvista di impianti di riciclaggio.

Anche l’Italia può dover fare i conti con la svolta cinese, dato che è ormai difficile trovare da noi ulteriori spazi di recupero energetico e di smaltimento. Con una capacità di recupero e riciclaggio dell’83% della plastica e del 71% del vetro, il nostro Paese sarà tra quelli costretti a puntare decisamente sui materiali biodegradabili.

L’Ue ha preso nota del problema e nei giorni scorsi il vice-presidente della Commissione europea, Jyrki Katainen, ha confermato che Bruxelles sta valutando inasprimenti fiscali su oggetti usa e getta, come le borse di plastica, insieme a una serie di altri provvedimenti che includerebbe nuovi standard qualitativi per i prodotti e nuove regole per i porti. «Abbiamo tutto questo materiale di scarto e dall’inizio dell’anno ancora di più, perché la Cina non lo accetterà più», ha confermato Katainen a una Ue già alle prese con scelte necessarie a integrare i vuoti di bilancio destinati alla conservazione ambientale dopo la prevista uscita del Regno Unito nel 2020.

Già ora sottoposta anche alle pressioni da parte di alcuni Stati membri, che preferirebbero gestire in proprio i fondi frutto di nuove imposte specifiche, e degli ambientalisti che chiedono che questi vengano reinvestiti per favorire la lotta all’inquinamento. È tuttavia possibile che la Cina ritorni sui suoi passi: la necessità di produrre plastica da fonti non inquinanti come il petrolio può indurre Pechino a riaprire le frontiere alla plastica europea da riciclare.

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