Si accende dopo due anni l'albero: è il Natale "resistente" di Betlemme

di Daniele Rocchi (Agensir)
Padre Faltas (Custodia di Terra Santa) all'agenzia Sir: è la festa di tutti, stiamo uniti per affrontare la grande sofferenza
December 6, 2025
Si accende dopo due anni l'albero: è il Natale "resistente" di Betlemme
La cerimonia di accensione dell'albero di Natale a Betlemme, nella piazza della Mangiatoia, di fronte alla Chiesa della Natalità il 6 dicembre. EPA/ATEF SAFADI/ IMAGOECONOMICA
Betlemme, dopo due anni di "buio", si prepara a vivere il Natale con luci, sfilate scout, canti e mercatini e con l’accensione, oggi 6 dicembre, del grande albero allestito in piazza della Mangiatoia, antistante la basilica della Natività di Gesù. In Palestina, dove religione, cultura e politica si intrecciano, la celebrazione del Natale, in particolare dopo il 7 ottobre 2023, con la guerra in corso a Gaza e con le tensioni in Cisgiordania causate dagli attacchi sempre più violenti dei coloni israeliani, può assumere la forma di "un grido" che invoca il diritto all’esistenza, alla conservazione della propria identità e alla difesa del proprio patrimonio storico e religioso. Natale, dunque, come atto di "resistenza": ne abbiamo parlato con padre Ibrahim Faltas, della Custodia di Terra Santa, profondo conoscitore della realtà palestinese. Lo ricordiamo come mediatore durante i 39 giorni dell’assedio israeliano della Natività dove (dal 2 aprile del 2002) si erano rintanati 240 militanti palestinesi.
Padre Faltas, dopo il 7 ottobre 2023, è cambiato qualcosa nel modo di vivere il Natale per i palestinesi di fede cristiana e per i palestinesi in genere?
Nel 2023 e nel 2024 il Natale è stato celebrato dalle comunità cristiane locali di Betlemme, di Gerusalemme, della Cisgiordania in unità e con forte emozione. A Betlemme, in particolare, il Natale è una festa cui partecipano tutti, senza distinzione di credo religioso e di condizione sociale. Mentre i cristiani di Gaza per due anni consecutivi celebravano la gioia del Natale offuscata dalla violenza che li circondava, a Betlemme la condivisione della sofferenza dei fratelli di Gaza e la mancanza di pellegrini rendevano la città buia e silenziosa. Sono state rispettate le liturgie tradizionali delle varie confessioni e per due anni al Natale è mancata l’atmosfera esteriore di festa, di luci e di colori ma i betlemiti e i palestinesi in generale hanno celebrato la festa uniti per affrontare la grande sofferenza che sconvolge le loro vite.
Celebrare oggi il Natale in Palestina, alla luce del conflitto in corso a Gaza e in Cisgiordania, può essere considerato un atto di "resistenza", un modo per la comunità cristiana di dire “noi siamo ancora qui”?
Le comunità cristiane palestinesi guardano a Betlemme come il luogo della nascita della salvezza.  Betlemme si identifica con il Natale e nei secoli è stata identificata come la città del Principe della Pace, rappresentando e diffondendo un messaggio di pace nel mondo. A Betlemme ‘tutti siamo nati’, recita il Salmo. Per questo Betlemme non può essere considerata una città come le altre, perché è principalmente un vero messaggio di pace. I cristiani palestinesi sentono fortemente l’orgoglio di appartenere alla Terra Santa, alla Terra dove è nato, vissuto e morto dopo una dolorosa passione, il Salvatore. Tutti i betlemiti di ogni religione sentono profondamente l’appartenenza ad una città che ha avuto il dono di accogliere il Bambino Divino.
Betlemme, circondata dal muro di separazione israeliano, incarna, quindi, questa ‘resistenza’, e questo senso di forte appartenenza…
È proprio così. Betlemme e la Cisgiordania non sono solo separate dal muro che isola e divide ma anche all’interno della Cisgiordania circa 1000 check point e posti di blocco limitano la libertà di movimento, la possibilità di coltivare i campi e di lavorare, le relazioni umane. Per queste grandi difficoltà cerchiamo di aiutare a rimanere a Betlemme e in Palestina i cristiani locali che difendono con forza la propria fede e la propria identità. Sono un esempio concreto vero di una testimonianza di fede e di appartenenza.
Le Chiese locali come vivono questo ‘intreccio’ tra spiritualità e identità nazionale nelle celebrazioni?
Penso che i cristiani siano molto rispettati e stimati come mediatori di pace. Certamente sono una minoranza nella società civile palestinese ma ci sono sempre stati rispetto e solidarietà fra musulmani e cristiani. Soprattutto nelle feste religiose, è consuetudine scambiarsi auguri e partecipare alla gioia reciproca. In questi due anni l’ho sperimentato in più occasioni. Noto un rispetto reciproco che porta anche all’unità nazionale. La prima immagine che mi viene in mente è il rispetto e la cordialità fra Papa Francesco, Papa Leone XIV e il presidente palestinese Abu Mazen che, quando è in Italia visita prima il Vaticano e poi i rappresentanti istituzionali italiani. L’ultima visita del presidente in Italia è iniziata con un omaggio alla tomba di Papa Francesco a Santa Maria Maggiore. In queste situazioni emerge il rispetto e la gratitudine della Palestina alla Chiesa cattolica.
Dunque, non vede il rischio che la dimensione prettamente spirituale del Natale oggi possa essere assorbita da quella politica?
Non credo la festa religiosa possa mai perdere la sua forte spiritualità che vive da duemila anni per trasformarsi in un evento di carattere politico. Arafat ha fortemente voluto che i sindaci di sette città della Cisgiordania fossero cristiani, a capo di consigli comunali con appartenenti alle diverse religioni. Lo stesso Arafat ha istituto come feste nazionali il 25 dicembre, Solennità del Natale dei latini, e il 7 gennaio, Natale degli ortodossi.  È evidente il desiderio di rispettare le comunità cristiane, nonostante siano una minoranza. Il Natale è un’opportunità di condivisione, di rispetto e di convivenza pacifica. Chi viene a Betlemme lo vede e lo percepisce. Lavorare per la pace significa anche favorire occasioni di scambio e di conoscenza della reciproca appartenenza religiosa. Chiaramente il rispetto reciproco è essenziale.
In che modo il Natale diventa testimonianza di speranza in mezzo alla sofferenza?
Non è facile. È molto difficile testimoniare la speranza con le immagini che arrivano da Gaza e con i traumi visibili e invisibili dei bambini, dei fragili e degli indifesi della Terra Santa. Nei miei trentasei anni vissuti in questa terra benedetta ho conosciuto numerosi drammi di persone che hanno avuto perdite dolorose di figli, di ammalati che hanno affrontato la malattia senza speranza di guarigione, di bambini traumatizzati dai suoni e dalla violenza della guerra, di situazioni di grave povertà. Ogni volta Nostro Signore mi ha dato la forza di dare speranza e mi ha dato speranza. Quella speranza vera, che non delude e che ogni giorno rafforza la nostra fede e aiuta ad affrontare giorno per giorno situazioni difficili e complesse. È iniziato l’Avvento, tempo forte di attesa e di speranza. Gesù Bambino viene a portarci la speranza della vita eterna. Accogliamolo con gioia e con speranza!

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