L'ex campione di basket palestinese: «Io, senza più compagni»
di Andrea Ceredani, Betlemme
Assem Barakat, dopo anni di canestri con la Nazionale, ricorda la sua squadrai: «Israele ci ha fermati. Molti sono stati uccisi a Gaza, altri sono in prigione»

Sulla strada che porta alla chiesa della Natività di Betlemme, dove prima camminavano migliaia di pellegrini, ora passeggiano solo famiglie di palestinesi, interessate più ai negozi di stoffe che ai souvenir. «Ormai non esistono più le domeniche di qualche anno fa. Prima della guerra a Gaza queste vie erano piene di turisti. Ora non succede più niente». A parlare è Assem Barakat, commerciante palestinese di 56 anni, padre di quattro figli, alto quasi due metri. Prima di prendere in mano il negozio di famiglia, Barakat era giocatore e allenatore della nazionale di basket della Palestina: «Ho giocato in Tunisia, in Giordania e negli Emirati Arabi – racconta –, ma soprattutto in tutta la Palestina: dal nord della Cisgiordania fino a Gaza. Ora è impossibile giocare. Israele ci impedisce di muoverci liberamente e di tenere aperti i centri sportivi».
Barakat ha solcato il primo campo da basket a 5 anni. La sua famiglia nel 1974 gestiva già il suo negozio di stoffe, «faceva buoni affari» e nel tempo libero portava il piccolo Assem al Santuario di Cremisan, vicino a Betlemme, gestito dalla Società salesiana. «In quel complesso salesiano potevamo giocare a ogni sport: tennis, pallavolo, calcio. Ma quando un prete portò i canestri in campo, iniziai ad allenarmi con la sua squadra ogni giorno». Al suo ventesimo compleanno, Barakat era uno dei giocatori più promettenti della Cisgiordania e la sua squadra tra le più competitive del Paese. Da Betlemme iniziò a viaggiare – e a vincere partite – tra le maggiori città palestinesi: Nablus, Jenin, Tulkarem, Gerusalemme e Gaza City. «All’inizio della mia carriera i check-point non bloccavano i nostri spostamenti, ma poi è cambiato tutto. Ora, se volessi arrivare a Nablus (a circa cento chilometri da Betlemme, ndr), potrei impiegare anche otto ore o non arrivare mai. Le cose sono iniziate a cambiare nel 1987».
Assem Barakat conta il tempo in base alle Intifade. E la prima ebbe inizio proprio nel dicembre del 1987. «Da allora ho continuato a giocare e allenare ancora per circa vent’anni, prima con la mia squadra e poi con la nazionale, che ho portato anche fuori dai confini palestinesi – spiega –. Ma tutto stava iniziando a cambiare: sono arrivati i check-point, hanno alzato muri ovunque e i miei compagni di Gaza, alla fine, sono stati chiusi nella Striscia». Mentre scorre tra le mani le foto delle sue vecchie squadre, Barakat ricorda anche «gli amici persi», tutti gazawi. «So che tre miei compagni di nazionale sono stati uccisi – racconta –. A un altro è stata bombardata la casa, nell’esplosione sono morte decine di familiari e lui ha perso la vita una settimana dopo per un attacco di cuore. Altri sono riusciti a fuggire in Egitto. La mia vecchia nazionale palestinese è stata decimata». Quella nuova, però, non esiste più. I compagni di Barakat che hanno continuato ad allenare i giovani cestisti palestinesi, negli anni, sono stati tutti fermati. L’ultimo, nel 2024, è stato posto in detenzione amministrativa dopo aver aperto il portone del centro sportivo a Nablus: «Lo hanno visto le telecamere israeliane e il giorno dopo sono andati a prenderlo a casa. Nei sei mesi trascorsi dentro alle carceri israeliane, ha perso oltre venti chili». Adesso è ancora detenuto, ha 70 anni e Barakat non sa «se riuscirà a resistere stavolta».
Sulle strade palestinesi gli atleti sono bloccati dai check-point “volanti” dei soldati israeliani. «Non importa se a bordo dell’auto c’è una squadra di basket, calcio o pallavolo – racconta Barakat –. I posti di blocco ci fermano anche per otto ore, prendono i nostri documenti e talvolta arrestano i nostri atleti. Senza contare gli attacchi dei coloni ai nostri centri di allenamento». Per Barakat, non è solo una questione di sport. «Lo sport è cultura – conclude Barakat – e la parte più dolorosa, per me, è che hanno occupato la nostra cultura. Oggi non penso più al basket ma, per colpa di tutti questi muri e check-point, ormai non riesco più nemmeno a festeggiare un compleanno o a partecipare a un funerale in famiglia».
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