Dopo il richiamo di Trump, qual è il piano B dell'Europa?

La democrazia da rigenerare
December 6, 2025
Dopo il richiamo di Trump, qual è il piano B dell'Europa?
Le bandiere del Parlamento europeo a mezz'asta a Bruxelles ANSA / Giuseppe Maria Laudani
La National Security Strategy statunitense del 2025 è chiara, e proprio per questo va presa sul serio. Gli Stati Uniti vogliono un’Europa che “torni europea”, che si assuma il peso della propria difesa, che apra i propri mercati, che riduca il ruolo delle istituzioni sovranazionali giudicate invasive e che riallinei le proprie scelte agli interessi strategici americani. L’Europa è rilevante, ma solo se funzionale a un equilibrio di potere disegnato altrove. Non è pensata come un soggetto politico autonomo, ma come uno spazio da stabilizzare. Non è solo una visione geopolitica. È un messaggio politico implicito: l’integrazione europea, così come l’abbiamo conosciuta, non è più considerata un valore in sé. Conta solo se serve. Il resto – coesione sociale, diritti, welfare, mediazione istituzionale – è visto come un ostacolo. È qui che si apre una frattura profonda. Perché questo mondo che “dà le carte” non può piacerci, e soprattutto non ci rappresenta: se l’Europa accetta di stare dentro questo schema, rischia di perdere insieme sovranità, legittimità e consenso.
Serve dunque un Piano B europeo. Non un piano difensivo, ma una scelta strategica consapevole. Un Piano B che tenga insieme democrazia, sviluppo e coesione, e che rimetta al centro ciò che oggi viene sistematicamente marginalizzato: l’economia sociale e i corpi intermedi.
Non è un caso che, mentre il contesto internazionale spinge verso semplificazioni autoritarie e leadership forti, cresca anche un disagio democratico profondo. Il Censis lo ha osservato con chiarezza: circa il 30% degli italiani guarda con favore a forme di autarchia o a modelli di governo che riducono pluralismo e mediazione. Non è nostalgia ideologica. È paura, disorientamento, richiesta di protezione. Ed è proprio qui che si annida la deriva demofobica: quando la complessità viene percepita come minaccia e la democrazia come inefficiente. I corpi intermedi sono il primo, vero antidoto a questa deriva. Sono nuovi anticorpi democratici. Cooperative, associazioni, fondazioni, reti civiche, mutualismi non svolgono solo una funzione sociale o economica: svolgono una funzione politica in senso alto. Tengono viva la partecipazione, trasformano bisogni in domande collettive, costruiscono fiducia dove lo Stato è lontano e il mercato non arriva.
L’economia sociale, in questo quadro, non è un settore tra gli altri. È una infrastruttura democratica europea. È il luogo in cui valore economico e valore sociale non si separano, in cui la comunità non è uno slogan identitario ma una pratica quotidiana, in cui la sicurezza non è solo controllo ma capacità di prendersi cura. Da qui devono partire alcune scelte nette, che sono insieme politiche e culturali.Primo: riconoscere l’economia sociale come leva strategica dello sviluppo europeo, non come compensazione delle disuguaglianze prodotte altrove. Questo significa politiche industriali europee che includano le imprese sociali, la cooperazione, i modelli mutualistici come parte della soluzione alle transizioni ecologica, digitale e demografica.Secondo: rafforzare i corpi intermedi come spazi di mediazione democratica. Non aggirarli in nome di un rapporto diretto e plebiscitario tra leader e popolo, ma investirli di responsabilità, risorse e ruolo. Dove i corpi intermedi sono deboli, cresce la tentazione dell’uomo solo al comando. Dove sono vivi, la democrazia regge anche nei momenti di crisi.Terzo: rigenerare la politica nel rapporto con la società civile organizzata. Oggi troppo spesso la politica è disinteressata, quando non apertamente diffidente, verso questi mondi. Eppure è proprio da qui che possono emergere istanze credibili su lavoro dignitoso, welfare territoriale, coesione sociale, beni comuni, partecipazione. Riconoscere la società civile non significa cederle il potere decisionale, ma abilitarla a incidere, rappresentarla, assumere quelle domande come parte integrante dell’agenda pubblica.Quarto: riaffermare un’idea europea di sicurezza che non separi difesa, economia e società. Un’Europa più autonoma non può essere solo più armata. Deve essere più coesa, più giusta, più capace di dare futuro nei territori. Altrimenti qualunque rafforzamento “duro” resterà privo di consenso e quindi fragile.
Il Piano B europeo passa da qui. Da una risposta che non rincorre i nazionalismi altrui, ma rilancia una sovranità condivisa fondata su comunità reali, economia sociale, democrazia partecipata. Se la posta in gioco è evitare che cresca la fascinazione per l’autarchia e l’uomo forte, allora il compito non è ridurre la democrazia, ma renderla nuovamente abitabile. Il futuro – lo sappiamo – sarà europeo o non sarà. Ma sarà europeo solo se l’Europa saprà riconoscere che i corpi intermedi non sono un residuo del passato, bensì la condizione per un futuro democratico. E solo se la politica farà finalmente la sua parte: non dominando, non ritirandosi, ma abilitando.

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