Il Papa dal Libano: cristiani e musulmani, insieme per la pace. E basta paure
di Giacomo Gambassi, inviato a Beirut
Il Paese dei cedri affida al Papa il sogno di fraternità. Il richiamo all'urgenza del dialogo per fermare le guerre: dialogo politico e fra le religioni. Il ruolo del Pontefice come mediatore

Il volto di Leone XIV si ripete per chilometri e chilometri lungo le strade di Beirut e fino a un raggio di cinquanta chilometri dalla capitale. Il volto del Papa che sorride; il volto circondato dalle sue mani alzate; il volto che accompagna una sua benedizione. Poi chilometri e chilometri di bandiere: quelle del Libano accanto a quelle della Santa Sede. Ma soprattutto chilometri e chilometri di gente comune che lo attende: anche sotto il temporale; anche sfidando il freddo pungente a1.200 metri di altezza che si fa ancora più gelido per la pioggia davanti alla chiesa di san Charbel, il monaco dei miracoli che viene considerato patrono del Paese e di fronte a cui il Pontefice si inginocchia e prega. È un ininterrotto bagno di folla la visita di Leone XIV in Libano, seconda e ultima tappa del suo primo viaggio apostolico che lo ha portato prima in Turchia e, fino a questo pomeriggio, nella nazione del Medio Oriente «segnata da ferite profonde che stentano a rimarginarsi», afferma il Papa parlando ieri con i giovani.

Una festa nazionale per il Pontefice a cui il Paese affida il suo sogno di pace. L’incontro con le autorità diventa un grido di aiuto. «Santo Padre, la imploriamo di dire al mondo che non moriremo, né andremo via, né dispereremo, né ci arrenderemo», gli spiega il presidente della Repubblica, Joseph Aoun, insediatosi a gennaio dopo due anni di paralisi istituzionale. I vescovi e i sacerdoti gli consegnano la «sete di pace e giustizia» dopo che «negli ultimi anni il popolo libanese ha affrontato prove che hanno profondamente scosso il suo corpo e la sua anima», gli dice il patriarca armeno cattolico Raphaël Bedros XXI. I ragazzi con cui dialoga gli presentano i loro propositi di fraternità. E i capi religiosi il desiderio che, «in un momento delicato della storia di questa regione, dove assistiamo a grandi turbolenze e a trasformazioni radicali», sia possibile avere «stabilità, giustizia e pace per la nostra terra che non conosce da molto tempo», gli rivela il capo della Chiesa siro-ortodossa nel mondo, Mar Ignazio Efraim II. Sintetizza il patriarca maronita, il cardinale Béchara Boutros Raï: «Lei è il Papa della vicinanza, il Papa dell’ascolto e della misericordia, il Papa della pace che ricorda al mondo che la luce è sempre più forte delle tenebre».

«Beati gli operatori di pace», si legge sui manifesti che in ogni angolo di Beirut presentano la visita riprendendo una delle Beatitudini che fa da tema alle due giornate e mezzo in terra libanese. «Beati gli operatori di pace», ripete Leone XIV fin dal suo primo discorso nel palazzo presidenziale. Parole del Vangelo che il Papa declina facendo riferimento a «un mondo lacerato da guerre e sfigurato dalle ingiustizie sociali», dice ai 15mila ragazzi che riempiono ieri pomeriggio il piazzale del patriarcato maronita a Bkerké «L’amore per la pace – afferma davanti alle autorità nazionali – non conosce paura di fronte alle sconfitte apparenti, non si lascia piegare dalle delusioni, ma sa guardare lontano, accogliendo e abbracciando con speranza tutte le realtà. Ci vuole tenacia per costruire la pace».

Il Papa indica alcune coordinate. Non si può cedere «a localismi e nazionalismi». Occorre rifuggire da «una sorta di pessimismo e sentimento di impotenza» quando «le grandi decisioni sembrano essere prese da pochi e, spesso, a scapito del bene comune». Servono «istituzioni che riconoscano il bene comune superiore a quello di parte» perché «il bene comune è più della somma di tanti interessi». È necessario non «rimane schiacciati dall’ingiustizia e dal sopruso, anche quando si è traditi da persone e organizzazioni che speculano senza scrupoli sulla disperazione di chi non ha alternative», afferma nel colloquio con il clero ricorrendo a parole che possono essere associate a Hezbollah.

Soprattutto è urgente scommettere sul dialogo. C’è quello politico che ha anche le caratteristiche del negoziato. «A volte si pensa che, prima di compiere qualsiasi passo, occorra chiarire tutto, risolvere tutto, invece è il confronto reciproco, anche nelle incomprensioni, la strada che porta verso la riconciliazione», sottolinea nell’appuntamento con i vertici nazionali. E il dialogo è cultura dell’incontro fra coloro che per la geopolitica ritiene “nemici”. Come mostra il “metodo vaticano” che vede impegnato in prima persona Leone XVI: essere «fra le parti una voce mediatrice per avvicinarsi a una soluzione» che sia nel segno della «giustizia per tutti», spiega lo stesso Pontefice sul volo papale che lo porta da Istanbul a Beirut riferendosi alla Terra Santa. Ed è significativo che dica «Siamo amici di Israele», sia dopo averlo criticato perché «non accetta» l’«unica soluzione possibile» dei «due Stati», sia prima di atterrare nel Paese che Tel Aviv continua ad attaccare, ricordano alcuni capi religiosi nell’incontro di ieri pomeriggio. Il Papa intende essere ponte. E a lui si guarda con fiducia. Come gli fa sapere lo sceicco sciita Ali El-Khatib: «Poniamo la questione del Libano nelle sue mani, con tutte le sue capacità a livello internazionale, affinché il mondo possa aiutare il nostro Paese a liberarsi dalle crisi accumulate, in primis la continua aggressione israeliana e le sue conseguenze sul nostro Paese e sul nostro popolo». Lo confermano anche le bandiere di Hezbollah che lo salutano mentre il corteo papale attraversa i quartieri sciiti.

Poi c’è il dialogo fra le fedi e le culture che Leone XIV ritiene cruciale per costruire la pace e che il Libano testimonia con la coesistenza di diciotto comunità religiose. Anche se, sottolinea il Papa nell’appuntamento interreligioso in piazza dei Martiri, «talvolta l’umanità guarda al Medio Oriente con un senso di timore e scoraggiamento, di fronte a conflitti così complessi e di lunga data» e mentre si vive «un’epoca in cui la convivenza può sembrare un sogno lontano, il popolo del Libano, pur abbracciando religioni diverse, rappresenta un potente esempio: paura, sfiducia e pregiudizio non hanno qui l’ultima parola, mentre l’unità, la riconciliazione e la pace sono sempre possibili. Ecco, dunque, la missione che rimane immutata nella storia di questa amata terra: testimoniare la verità duratura che cristiani, musulmani, drusi e innumerevoli altri possono vivere insieme, costruendo un Paese unito dal rispetto e dal dialogo». E tutti hanno un compito, osserva il Pontefice: sono chiamati «a essere costruttori di pace, a contrastare l’intolleranza, superare la violenza e bandire l’esclusione, illuminando il cammino verso la giustizia e la concordia per tutti, attraverso la testimonianza della fede».

Alla Chiesa, nell’incontro con vescovi e sacerdoti nel Santuario di Nostra Signora del Libano ad Harissa, polmone spirituale della nazione, ricorda che la potenza della «nostra preghiera, ponte invisibile che unisce i cuori, ci dà la forza per continuare a sperare e a lavorare, anche quando attorno tuona il rumore delle armi». Glielo racconta padre Youhanna-Fouad Fahed, che vive in un villaggio nel nord del Libano finito sotto il fuoco siriano. «Là, pur nel bisogno più estremo e sotto la minaccia dei bombardamenti, cristiani e musulmani, libanesi e profughi d’oltre confine, convivono pacificamente e si aiutano a vicenda», riassume il Papa. E chiarisce che, nel Libano «dove minareti e campanili stanno fianco a fianco», ogni «richiamo alla preghiera» può «fondersi in un unico inno, elevato non solo per glorificare il misericordioso Creatore del cielo e della terra, ma anche per implorare di vero cuore il dono divino della pace». Pace che, evidenzia il Pontefice con le autorità, «è saper abitare insieme, in comunione, da persone riconciliate». Proprio la riconciliazione è una delle premesse per la pace. «Ardua via», la definisce Leone XIV, soprattutto in mezzo a «ferite personali e collettive che chiedono lunghi anni, a volte intere generazioni, per potersi rimarginare». Ma, se non vengono curate, «se non si lavora, ad esempio, a una guarigione della memoria», «difficilmente si va verso la pace» in quanto «si resta fermi, prigionieri ognuno del suo dolore e delle sue ragioni».

Uno degli effetti dell’instabilità è la migrazione. Tema che torna più volte negli interventi del Papa nel Libano che vive un esodo ininterrotto. «Sappiamo che l’incertezza, la violenza, la povertà e molte altre minacce producono qui, come in altri luoghi del mondo, un’emorragia di giovani e di famiglie che cercano futuro altrove, pur con grande dolore nel lasciare la propria patria». Da qui il monito: «Di fronte a drammi simili non possiamo restare indifferenti». E tutto ciò «ci impone di impegnarci, affinché nessuno debba più fuggire dal suo Paese a causa di conflitti assurdi e spietati, e affinché chi bussa alla porta delle nostre comunità non si senta mai respinto, ma accolto».

Fra gli ambasciatori di pace Leone XIV cita le donne. Va valorizzato «il loro ruolo imprescindibile» perché «sanno custodire e sviluppare legami profondi con la vita e con le persone» e la loro «partecipazione alla vita sociale e politica rappresenta in tutto il mondo un fattore di vero rinnovamento». E poi i giovani. «Voi avete un dono, che spesso a noi adulti sembra ormai sfuggire. Voi avete speranza! Voi avete il tempo! Avete più tempo per sognare, organizzare e compiere il bene», li incoraggia nella “piccola” Gmg di ieri con un tono particolarmente energico. E avverte: «La vera resistenza al male non è il male, ma l’amore, capace di guarire le proprie ferite, mentre si curano quelle degli altri». Quindi la missione: «Con un generoso impegno per la giustizia, progettate insieme un futuro di pace e di sviluppo». E «costruite un mondo migliore di quello che avete trovato». A ricapitolare le due giornate libanesi del Papa sono le parole con cui affida all’intercessione di san Charbel «le necessità della Chiesa, del Libano e del mondo. Per la Chiesa chiediamo comunione, unità: a partire dalle famiglie, piccole Chiese domestiche, e poi nelle comunità parrocchiali e diocesane, fino alla Chiesa universale. E per il mondo chiediamo pace».
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