martedì 24 maggio 2016
Il fondatore di Sant'Egidio: la crisi di culture e identità genera radicalismo religioso e terrorismo.
Riccardi: «Serve il dialogo di civiltà plurali»
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Pubblichiamo ampi stralci della relazione che Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, svolgerà stamani a Parigi durante l’incontro “Oriente e Occidente, dialoghi di civiltà” cui prenderà parte il grande imam di al-Azhar, Ahmad al-Tayyib.La continuazione del dialogo tra Oriente e Occidente, nonostante le difficoltà, si deve a una volontà tenace di non far cadere i ponti, ma anche alla decisione di continuare a costruire simpatia e scambi d’idee. A tempi fissi, vogliamo fare il punto sul confronto tra due civiltà. Il nostro lavoro è stato definito bene, a Firenze, un anno fa, dal gran imam di al-Azhar, Ahmed al-Tayyib: «La piattaforma comune per la complementarietà ». E aggiungeva che tra le due civiltà «non ci sono alternative alla solidarietà». Per questo, passo dopo passo, vogliamo sviluppare una piattaforma allargata della complementarietà. Dialogo vuole dire abbandonare l’arroganza e il sospetto, come al-Tayyib diceva a Firenze. Questo non vuol essere – lo ripeto – un dialogo tra cristianesimo e islam, ma tra due universi culturali. Né tra le religioni monoteiste. Fatti importanti, ma diversi dall’evento a cui partecipiamo. È un dialogo tra civiltà, religiosamente plurali. Certo, in queste civiltà, la religione è rilevante: in modo diverso tra Oriente e Occidente. Lo dico qui, a pochi passi da Notre Dame de Paris, che manifesta la storia del cristianesimo a Parigi; ma non posso dimenticare il grande ruolo del pensiero laico nella Francia contemporanea o quello dell’ebraismo in Europa. Non si capisce la cultura occidentale senza questo pluralismo. E i nostri amici di al-Azhar, ci potranno dire del ruolo e la funzione di mediazione dei cristiani d’Oriente nella cultura orientale, dove l’islam ha il peso considerevole che sappiamo.Eppure gli ultimi decenni hanno segnato una cristallizzazione del rapporto tra Oriente e Occidente, quasi destinati inevitabilmente all’incomprensione o allo scontro. Quasi in questo scontro pesasse un’incompatibilità ancestrale. Quasi l’incompatibilità fosse un fatto a fondamento religioso, in un certo senso immutabile. La realtà non è questa. La realtà è che è profondamente cambiato lo scenario del mondo. In Oriente e in Occidente, in Europa e nei Paesi mediterranei, c’è un nuovo protagonista, la globalizzazione,  che non è una civiltà o una cultura, ma un mondo e un insieme di processi in cui tutti – nessuno escluso – siamo immersi. Processi ambivalenti che, da un lato, mettono a contatto e aprono, ma, dall’altro, suscitano irrigidimenti, conflittualità, cristallizzazioni. Qui, nella capitale francese, come ovunque, percepiamo con forza un processo globale che, da due decenni in pratica, sta cambiando la vita dei popoli: è la mondializzazione che cambia mentalità, riferimenti, culture e comportamenti. Questa mondializzazione è la nostra storia e il nostro presente. Non saremo noi a respingerla, chiusi nella nostalgia del passato. Del resto è inevitabile, perché la globalizzazione è la nostra vita. Tuttavia la nostalgia fa vivere chiusi in un tempo che non esiste più. Questo talvolta avviene anche in mondi religiosi, che si chiudono nel passato e che proclamano i loro valori a occhi chiusi. Eppure le religioni – e penso al cristianesimo – chiedono ai credenti di essere vigilanti: da qui proviene quella che un teologo del nostro tempo, José Tolentino, chiama la «mistica a occhi aperti», cioè uno sguardo rivolto alla realtà. Un grande Padre del cristianesimo greco del IV secolo, Basilio di Cesarea, affermava che la cosa più importante per un cristiano è «vigilare ogni giorno e ogni ora». Cioè vivere con gli occhi aperti al presente. Questa è stata anche gran parte della cultura occidentale che, nella volontà di conoscere, ha tenuto gli occhi aperti sulla realtà. È la mitica figura greca di Ulisse che, arrivato alle colonne d’Ercole, allo stretto di Gibilterra, vuole convincere i suoi a passare oltre il limite imposto dalla paura, dall’ignoto e dalla tradizione. Così lo interpreta Dante Alighieri, il grande poeta della lingua italiana: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza» (vv 112-120). Questa è la traduzione dall’italiano antico: «Considerate la vostra origine: / non siete nati per vivere come bruti (come animali), / ma per praticare la virtù e apprendere la conoscenza». Sono parole che possono essere il manifesto della cultura occidentale: superare i limiti e crescere in una nuova conoscenza. Ma ritorniamo alla nostra realtà, il mondo globale: induce processi di grande cambiamento e di conseguente spaesamento tra gente abituata, per secoli, a vivere in orizzonti nazionali o più piccoli. Tzvetan Todorov parla dei contemporanei come «spaesati». Su questo “spaesamento”, che è mancanza di riferimenti sicuri e frontiere protettive, s’innesta la grande paura di molti popoli occidentali: una paura, generatrice di cultura della paura o di politica della paura. La paura ha conseguenze deprecabili sul piano dei rapporti e del dialogo con l’altro: rende difensivi e aggressivi allo stesso tempo. È la madre dei muri reali e culturali del presente. La paura aborre il dialogo e l’incontro. Anzi si sente rassicurata, quando si scatenano le guerre culturali tra mondi e civiltà, che esecrano l’altro e demarcano frontiere.Le nostre sono società emotive. Lo studioso francese Dominique Moïssi parla di «geopolitica delle emozioni». Società emotive. È un problema in Europa di fronte a sfide drammatiche, come il terrorismo, l’impatto con l’emigrazione, i rifugiati, le crisi economiche, il rapporto con l’altro: la geopolitica delle emozioni genera populismi, nazionalismi, xenofobia. La geopolitica delle emozioni crea immagini distorte dell’altro. Del resto la globalizzazione sembra ad alcuni la vittoria dell’Occidente: Serge Latouche ne parla come di un’occidentalizzazione del mondo intero. Non è così, anche per il ruolo preponderante del fattore economico nei processi globalizzanti. La globalizzazione, che ha tanti rapporti con l’Occidente, non è una cultura occidentale più larga, ma qualcosa di diverso. Di fronte al mondo globa-lizzato, ci interroghiamo criticamente sulla sorte dei diritti umani, dell’umanesimo, della democrazia e le sue istituzioni. No, anche la civiltà occidentale contemporanea deve fare i conti con la globalizzazione in maniera critica. La globalizzazione, da parte sua, deve fare i conti con le culture storiche dei popoli, che si sono consolidate nelle eredità dell’una e dell’altra civilizzazione. Deve transitare attraverso di esse.  Invece, troppo spesso, nei nostri Paesi europei ci si trova innanzi a processi di deculturazione, di distruzione di culture, ridotte ad archeologia e non a qualcosa di dinamico e popolare. Olivier Roy, illustre islamologo francese, ha molto insistito su questo processo di estraniamento dalle culture e sulle sue conseguenze sulle giovani generazioni. Ma è qualcosa di più largo: la crisi delle culture, come identità storiche. Così si affrontano i grandi processi di globalizzazione con identità diminuite e culture infragilite. Del resto, tanti anni fa, Marshall Mc Luhan, lo studioso canadese cui si deve l’interpretazione, tanto preveggente, del mondo come villaggio globale, insisteva sulla crisi ingenerata dall’invadenza dei media che faceva perdere l’identità dei singoli, dalla massificazione dei singoli e dalla crisi delle identità. Aveva ragione, anche se il processo è andato molto avanti rispetto alle previsioni, creando una forma di deculturazione generalizzata. La deculturazione genera indifferenza di fronte alle grandi tematiche, porta a chiudersi nel proprio mondo individuale. Nel nostro Occidente, così sensibile ai temi dei diritti umani e attento alla pace, si è avuta una forte attenuazione di questo tipo di attenzione. Siamo passati dalle grandi manifestazioni contro la guerra in Iraq del 2003 al silenzio distratto di fronte alla guerra che ha distrutto la Siria. Che cosa è successo? Da dove viene questa indifferenza? Proprio dal processo di deculturazione, di crisi di valori e passioni: tutti più indifferenti! C’è un grande vuoto. Soprattutto lo si vede nelle periferie delle città, tra i periferici ai grandi giochi di un mondo globale. Qui ci sono ampi vuoti di cultura, d’identità, di orientamento, di lettura della realtà. Questi vuoti sono molto preoccupanti. Perché il vuoto non resta come tale ed è invivibile: qualcosa d’altro lo riempie. Infatti vediamo come la crisi delle culture e delle identità generi altri fenomeni pericolosi, come il radicalismo religioso e il terrorismo a matrice religiosa. È quanto abbiamo visto a Parigi stessa, colpita dal terrorismo, e in vari luoghi d’Europa e del Mediterraneo. Questo fenomeno porta a utilizzare la religione come ideologia giustificativa per gruppi o persone radicalizzati dalla loro vita periferica. Il problema della radicalizzazione non è la religione cui si riferiscono, bensì è il vuoto d’idee, di cultura, di comprensione della realtà. I radicalismi non crescono alla scuola delle religioni, ma nel vuoto delle nostre città senz’anima. La fine delle grandi ideologie politiche, con tutte le loro ambiguità e contraddizioni, ha segnato l’eclissi di tante culture di massa, che coinvolgevano milioni di persone in Occidente. Erano ideologie che, in qualche modo, portavano a una partecipazione democratica. Il disamore attuale per la democrazia (lo si vede dal costante abbassamento della partecipazione alle elezioni) dice molto su come sia necessario rimeditare sul valore della cultura. Come affermava un intellettuale italiano, Pietro Scoppola, «la democrazia non si crea per decreto, è una cultura». I meccanismi del mondo globale rischiano di svuotare le democrazie, facendo il gioco delle emozioni: occorre riflettere su quello che vuol dire cultura come elemento dinamico della vita democratica. La storia delle democrazie occidentali si è sempre accompagnata alla crescita della cultura liberale, democratica, socialista. Per questo la democrazia non s’impone da fuori, ma ha bisogno di maturare in una cultura condivisa. Gli stessi valori, pur così importanti, non sono dogmi ma vivono, crescono e si comunicano nella cultura. Le grandi religioni, nella loro storia lunghissima, sono entrate in contatto con le culture e le civiltà, le hanno assunte e le hanno trasformate. Questa è stata la storia del cristianesimo degli inizi nel confronto con la cultura greco-romana; ma è stata anche la vicenda del cristianesimo del Novecento nel contatto con la grande cultura dei diritti dell’uomo, delle libertà, della democrazia, delle sfide di solidarietà. Il dialogo ha creato osmosi felici e costruttive. Il mondo globale, senza frontiere e con la sua rapida comunicazione, ha bisogno di essere abitato dalle culture e dalle civiltà. Il grande problema del XXI secolo, dei suoi orizzonti smisurati, è questo: essere abitato dalle culture, dalle civiltà, per liberarsi dal dominio unico delle ragioni del mercato o del gioco dei media. Questo è il grande compito della cultura occidentale che, nel dialogo con l’Oriente, viene stimolata a ripensare se stessa. Ma è anche – credo di poterlo dire – la sfida dell’Oriente, di fronte ai radicalismi. Il dialogo è già l’inizio di una stagione nuova: quella piattaforma di complementarietà che riempie e abita i vuoti aperti dal processo di globalizzazione. Per questo vorrei concludere con le parole di Marc Chagall, pittore russo di origine ebraica: «Se tutta la vita va inevitabilmente verso la sua fine... dobbiamo colorarla con i nostri colori di amore e di speranza». Le grandi zone grigie del mondo globale, dobbiamo colorarle con i colori della nostra cultura, della nostra fede, insomma del nostro amore e della nostra speranza. Così si umanizza il nostro tempo.
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